Evoluzione del concetto d’infermità mentale nell’ordinamento italiano

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Verso le ore 4 del 27 dicembre 2001 Giuseppe R., sul pianerottolo condominiale dinanzi alla porta della propria abitazione, esplodeva due colpi di pistola all’indirizzo di Vittorio A. il quale, a seguito delle ferite riportate, sarebbe morto poco prima dell’intervento di alcuni operatori della Polizia di Stato. Non ottemperando all’intimazione di gettare l’arma e alzare le braccia ma continuando a inveire nei confronti degli agenti e dei vicini accorsi sulla scena del delitto dopo gli spari, Giuseppe R. costrinse i poliziotti a immobilizzarlo per evitare che la situazione degenerasse ulteriormente, anche in seguito alle minacce rivolte alla moglie della vittima che, precipitatasi sul pianerottolo, tentava invano di soccorrere il marito.
Dalle indagini coordinate dal G.I.P. del Tribunale di Roma fu possibile ricostruire il contesto all’interno del quale si era verificato il delitto. Grazie alle testimonianze dei condomini e alla confessione resa dal signor Giuseppe R. in sede di interrogatorio, si appurò che la morte di Vittorio A. era avvenuta al termine dell’ennesima lite, ancora una volta scaturita a seguito dei rumori prodotti dall’autoclave della vittima e dalla conseguente disattivazione, da parte dell’indagato, del relativo impianto elettrico.
Concluse le indagini, Giuseppe R. fu rinviato a giudizio da parte del G.U.P. del Tribunale di Roma per rispondere dei reati di cui agli articoli 61, numeri 1, 4 e 5 c.p. – vennero quindi riconosciuti gli abietti o futili motivi alla base del gesto, agito con crudeltà e senza dare alla vittima la possibilità di difendersi direttamente o avvalendosi delle forze dell’ordine -; 575 e 577 numero 3 c.p., omicidio volontario aggravato dalla premeditazione; 337 c.p., resistenza a pubblico ufficiale; 612 comma 2 c.p., minaccia aggravata ai sensi del combinato dell’articolo 339 e 61 comma 2 del Codice Penale. Tali fattispecie vennero inoltre considerate unificate dal vincolo della continuazione ex articolo 81 Codice Penale.
Con sentenza del 4 aprile 2003, il giudice del Tribunale di Roma, procedendo con rito abbreviato a seguito della richiesta rivolta dall’imputato per mezzo del suo legale al G.U.P., dichiarava Giuseppe R. colpevole dei reati precedentemente citati e unificati ai sensi dell’articolo 81 c.p., riconoscendogli tuttavia, a seguito degli accertamenti peritali e tecnici finalizzati a valutare la sua capacità di intendere e di volere, la diminuente del vizio parziale di mente ex 89 c.p. Oltre alle aggravanti di cui all’art. 61 c.p., nn. 1 e 4, il giudice escluse anche la premeditazione ex 577 c.p., n. 3, condannando l’imputato alla pena di anni quindici e mesi quattro di reclusione e, accessoriamente, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Fu poi disposta, come misura di sicurezza, l’assegnazione a una casa di cura e di custodia per la durata minima di tre anni, oltre alla confisca dell’arma e al risarcimento del danno in favore della parte civile.
La Corte d’Assise d’Appello di Roma, riformando parzialmente quanto statuito dal giudice di primo grado, escludeva, con sentenza del 3 febbraio 2004, la diminuente di cui all’articolo 89 c.p. ed equiparando le attenuanti generiche all’aggravante ex articolo 61, numero 5, c.p. rideterminava la pena in anni sedici e mesi otto di reclusione, revocando inoltre la misura di sicurezza precedentemente comminata.
Per giustificare l’inammissibilità del vizio parziale di mente i giudici rilevavano che “né il perito nominato dal Tribunale né i consulenti tecnici chiamati in causa dal pubblico ministero hanno riscontrato nell’imputato altro che disturbi della personalità, sulla cui esatta definizione non si sono neppure trovati concordi”, giungendo comunque alla medesima conclusione secondo la quale “le anomalie comportamentali dell’imputato non sono causate da un’alterazione patologica clinicamente accertabile e non sono correlate ad alcuna infermità psichica, ma da un disturbo della personalità che non consente di prendere in considerazione quanto previsto dall’articolo 89 c.p.”.
Contro la suddetta sentenza l’imputato, tramite il proprio legale, proponeva il ricorso alla Corte di Cassazione, sostenendo che il giudice di secondo grado non aveva tenuto conto degli esiti delle consulenze e della perizia disposte in sede dibattimentale tramite le quali, pur con argomentazioni diverse, era stato evidenziato nel soggetto un disturbo di personalitàvariante paranoidea caratterizzata da “idee dominanti quali espressione di un vissuto fortemente persecutorio e causa di una significativa compromissione della capacità di intendere e di volere” – che la Corte d’Assise d’Appello ha ritenuto indicativo non dell’esistenza di un’infermità mentale ma di un semplice disturbo comportamentale tale da non incidere sulle facoltà cognitive e volitive nel senso indicato dall’articolo 89 del Codice Penale.images (2)
A tal proposito l’avvocato rilevava che “la valutazione dell’imputabilità espressa dalla suddetta Corte fosse infondata, poiché basata su un’erronea interpretazione del concetto di infermità che dovrebbe ricomprendere, come sostenuto da parte della giurisprudenza, anche quelle anomalie psichiche non direttamente riconducibili a un’alterazione organica clinicamente apprezzabile, purché eziologicamente correlate al delitto commesso”.
Per questo – oltre che per aver equiparato le attenuanti generiche all’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, c.p. – l’avvocato concludeva la propria argomentazione richiedendo l’intervento della Corte di Cassazione.
Il ricorso veniva assegnato alla I Sezione Penale della Suprema Corte la quale, con ordinanza del 13 ottobre 2004, ne disponeva la remissione alle Sezione Unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p. secondo il quale “se una sezione della Corte rileva che la questione di diritto sottoposta al suo esame ha dato luogo, o può dar adito, a un contrasto giurisprudenziale, su richiesta delle parti o d’ufficio, può con ordinanza rimettere il ricorso alle Sezioni Unite”.
Da tempo infatti, nella giurisprudenza della Corte di legittimità, era insorto un contrasto, segnalato dall’Ufficio del Massimario con la relazione n. 1074 del 23/10/2003, concernente il concetto di “infermità” previsto dagli articoli 88 e 89 c.p. ai fini della sussistenza del vizio totale o parziale di mente.
Secondo l’indirizzo maggioritario, seguito dalla sentenza impugnata, in tema di imputabilità le anomalie che influiscono sulle capacità cognitive e volitive del singolo sono le malattie mentali stricto sensu, come le insufficienze cerebrali correlate a una precisa alterazione fisiopatologica del sistema nervoso centrale o le psicosi acute e croniche. Conseguentemente esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche come le nevrosi e le psicopatie che, per la loro intrinseca transitorietà, non sono indicative di uno stato patologico clinicamente evidenziabile e pertanto non sono rilevanti ai fini della configurabilità degli articoli 88 e 89 c.p. (Cass. Sez. I, sentenza 3 marzo 1993; Cass. Sez. V, sentenza 19 novembre 1997; Cass. Sez. VI, sentenza 5 giugno 2003).
L’indirizzo minoritario a cui si era uniformata, almeno indirettamente, la sentenza del Tribunale sostiene al contrario un’interpretazione più estensiva secondo la quale “il concetto di infermità recepito dal nostro codice penale è più ampio di quello di malattia mentale: in questo modo, non essendo tutte le malattie psichiche inquadrate nella classificazione proposta dalle scienze psichiatriche, potrebbero rientrare in tale categoria anche le nevrosi e le psicopatie solo qualora si manifestino con intensità tale da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi e possano soddisfare il requisito di causalità rispetto all’evento delittuoso” (Cass. Sez. I, sentenza 16 aprile 1997; Cass. Sez. I, sentenza 24 aprile 2003).
In ambito giuridico tale contrasto ermeneutico, fonte della valenza tutt’altro che assoluta del concetto d’infermità, è strettamente correlato all’evoluzione che lo stesso ha subito all’interno delle discipline psichiatriche che propongono modelli scientifici diversi e fra loro conflittuali.
Secondo il tradizionale paradigma medico-organicistico, di evidente matrice positivistica e condiviso dal legislatore fascista al momento dell’introduzione del Codice Rocco del 1930, le infermità mentali poggiano su un substrato biologico clinicamente apprezzabile. Tale modello nosografico, compiutamente elaborato da Kraepelin sul finire del XIX secolo, afferma quindi la piena identità tra il concetto di infermità e quello di patologia psichica espressa da un corredo sintomatologico certo e documentabile. Pertanto “quando il disturbo mentale non corrisponde al quadro clinico di una data malattia non esiste uno stato patologico coincidente con il vizio parziale di mente” (Cass. Sez I, sentenza n. 930/1979). Analogamente “la nozione giuridica di infermità rilevante ai fini dell’esclusione della capacità di intendere e di volere deve essere ritenuta compiutamente integrata nell’ipotesi di accertata malattia in senso medico-legale. Ne consegue che lo stato di mente tale da escludere o scemare grandemente le facoltà cognitive e volitive deve necessariamente essere correlato a una causa patologica che sebbene non inquadrabile nella nosografia psichiatrica possa alterare, seppur temporaneamente, i processi psichici del soggetto” (Cass. Sez. I, sentenza n. 8539/1996).
Ai sensi di un’interpretazione così restrittiva, solamente le anomalie collegabili ad apprezzabili alterazioni anatomo-patologiche dei tessuti cerebrali, nonché a stati psicotici acuti o cronici, influirebbero sulla capacità di intendere e di volere. Al contrario le nevrosi, le psicopatie, le depressioni e i disturbi della personalità esprimerebbero mere atipicità caratteriali non correlate a un substrato organico.
Per questo motivo, “le anomalie che alterano le facoltà cognitive e volitive sono solo le malattie in senso stretto […] ed esula dalla nozione di infermità il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, poiché equiparabili, per la loro natura transeunte, ai vari stati emotivi e passionali e quindi non rilevanti ai fini della configurabilità degli articoli 88 e 89 c.p.” (Cass. Sez VI, sentenza n. 26614/2003).
Nell’ambito di tale paradigma, non mancano tuttavia riferimenti alla cosiddetta prospettiva psicopatologica, secondo la quale è possibile riconoscere un vizio di mente in presenza di un processo morboso non classificato nella organicistica nosografia clinica ufficiale. Si è affermato infatti che “se è esatto che quanto riportato dagli artt. 88 e 89 c.p. può sussistere anche in mancanza di una malattia mentale tipica, è tuttavia sempre necessario riscontrare uno stato morboso sostanziale” (Cass. Sez. I, sentenza n. 9739/1997).
Se da una parte, ai sensi di questo modello, è possibile estendere il concetto di infermità alle categorie nosografiche precedentemente escluse, dall’altra la giurisprudenza, forte dei retaggi culturali positivistici, ha sempre cercato di opporsi a tale concezione adottando dei criteri finalizzati a circoscriverne la portata. Per esempio richiedendo di accertare nelle singole fattispecie che l’intensità dell’anomalia psichica, seppur indipendente da cause organiche, sia d’intensità tale da ripercuotersi sulla capacità di intendere e di volere (Cass. Sez I, sentenza n. 24255/2004).
Tuttavia fu solamente sotto l’influenza dell’opera freudiana che iniziò a farsi strada un nuovo paradigma, quello psicologico, per il quale i disturbi mentali erano interpretabili come disarmonie psichiche caratterizzate dalla prevalenza della dimensione inconscia su quella reale. Valorizzando i fatti interpersonali dinamici piuttosto che quelli biologici e tendenzialmente statici, il concetto di infermità si estende fino a ricomprendere tutte le psicopatie precedentemente escluse.
Partendo dalle conclusioni del modello sociologico affermatosi intorno agli anni ’70 del secolo scorso, le quali evidenziavano la natura sociale della patologia psichica confutandone la substantia fisiopatologica, le scienze psichiatriche sono approdate a una concezione multifattoriale della stessa, considerando tanto le variabili biologiche quanto quelle psicologico-relazionali.
È proprio in funzione delle più aggiornate acquisizioni scientifiche che alla giurisprudenza, valorizzando la persona come soggetto dotato di autonomia decisionale e quindi potenzialmente colpevole – nell’accezione indicata dall’articolo 27 della Costituzione – di un determinato fatto-reato, spetta il compito di definire i concetti di imputabilità e di vizio di mente. Solamente in funzione di una concezione integrata del concetto di malattia psichica la Suprema Corte è riuscita quindi a proporre, non senza difficoltà legate alle divergenze interpretative dei suoi componenti, un sensibile ampliamento del concetto di infermità, dimostrandosi incline a ricomprendervi le nevrosi, le psicopatie e i disturbi della personalità.
images (5)In questo senso sono stati elaborati due criteri per valutare la rilevanza delle alterazioni psichiche nella produzione del vizio di mente. L’applicazione di quello inerente l’intensità del disturbo ha portato a ritenere che, in caso di anomalie mentali non classificabili secondo i rigidi schemi nosografici poiché sprovviste di un’apprezzabile base organica, ai fini dell’esclusione o della diminuzione dell’imputabilità debba considerarsi proprio il parametro in questione (Cass. Sez. VI, sentenza n. 22765/2003; Cass. Sez. I, sentenza n. 24255/2004). Secondo questa prospettiva rientrano, dunque, nel concetto d’infermità non solo la malattia mentale intesa in senso clinico-psichiatrico, ossia legata a un preciso quadro patologico, ma anche tutte quelle anomalie psichiche che, pur non aventi una documentabile base organica, incidono sulla capacità di intendere e di volere.
In funzione del secondo criterio, il quale può sovrapporsi a quello citato oppure sostituirlo, è invece necessario evidenziare la correlazione eziologica tra il disturbo mentale e l’azione delittuosa posta in essere dall’agente. Occorre quindi ricercare nella biografia individuale quella vis a tergo che ha condotto il soggetto a commettere il delitto de quo (Cass. Sez. I, sentenza n. 4103/1986; Cass. Sez. I, sentenza n. 19532/2003).
Secondo tali considerazioni appare dunque scontata l’incompatibilità fra il paradigma medico-organicistico imperante, seppur parzialmente messo in crisi dal modello psicologico, all’epoca dell’entrata in vigore dell’attuale Codice Penale e le nuove esigenze della giurisprudenza moderna.
In tale prospettiva ritengo opportuno ricordare che la Suprema Corte, nel motivare l’accoglimento dell’interpretazione del concetto di infermità ricomprendente i disturbi di personalità, ha voluto evidenziarne la differenza rispetto a quello di malattia.
Se quest’ultima può essere definita come uno stato transitorio di sofferenza necessariamente evolvente verso un esito che, a seconda dei casi, può essere rappresentato dalla guarigione, dalla stabilizzazione del quadro clinico o dalla morte, per “infermità” si intende qualsiasi compromissione, permanente o di lunga durata, delle fisiologiche funzioni dell’organismo tale da rendere l’individuo totalmente o parzialmente incapace di svolgere le normali attività quotidiane.
Pertanto i due concetti non possono essere considerati fra loro sovrapponibili, poiché quello di malattia viene ricompreso in quello d’infermità, riconoscendo la portata specifica del primo e quella generica del secondo. Conseguentemente, focalizzando ora la nostra attenzione sul piano della patologia mentale, con il termine “infermità” non possiamo far riferimento solo a una “condizione correlata a una rilevante alterazione anatomica o funzionale del distretto cerebrale dell’organismo” (Cass. Sez V, sentenza del 27 giugno 2000), ma a qualunque disturbo psichico in grado di compromettere irrimediabilmente, in maniera completa o parziale, la capacità di intendere e di volere. Non possiamo quindi non considerare i disturbi della personalità, ai quali la Suprema Corte riconosce la capacità di escludere o scemare grandemente le capacità cognitive e volitive del singolo qualora risultino inflessibili, non adattive e persistenti.
Da ciò deriva che tali anomalie psichiche, alla stregua delle psicosi ma tuttavia non inquadrabili nelle categorie nosografiche ufficiali della scienza medica, possono essere causa d’infermità rilevante ai sensi degli articoli 88 e 89 c.p. pregiudicando, totalmente o parzialmente, la capacità di intendere e di volere.
Specularmente, ai fini dell’imputabilità non possono essere considerate quelle anomalie caratteriali legate all’indole del soggetto (Cass. Sez. III, sentenza n. 22834/2003), così come i cosiddetti stati emotivi e passionali di cui all’articolo 90 del Codice Penale. Il principio normativo che esclude la rilevanza penale della suddetta condizione può scontrarsi con la realtà: per la loro stessa natura infatti sono tali da incidere, in modo più o meno marcato, sulla lucidità mentale del soggetto attivo senza che ciò, per espressa disposizione legislativa, possa escluderne l’imputabilità.
A tal proposito la giurisprudenza, senza invalidare la ratio della relativa norma, ha elaborato dei criteri che permettono a uno stato emotivo o passionale, in determinate condizioni, di assumere rilevanza giuridica, incidendo quindi sul giudizio concernente la capacità di intendere e di volere dell’agente.
Occorre quindi un quid pluris che, di concerto con la condizione in esame, si traduca in un vero e proprio stato patologico, sia pure di natura transitoria e non inquadrabile clinicamente, come riportato dalla sentenza n. 967/1998 emessa dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione. Ritengo necessario precisare che, ai sensi della stessa, l’esistenza di tale “fattore integrativo” va accertata sulla base degli assunti della scienza psichiatrica che, svolgendo nell’attuale quadro normativo la funzione di mero supporto alla decisione del giudice peritus peritorum, non potrà mai attribuire autonomamente carattere di infermità ad alterazioni psichiche transitorie correlate agli stati emotivi e passionali di cui si sia riconosciuta la sussistenza.
Pertanto, a seguito delle riflessioni sopra esposte, le Sezioni Unite della Suprema Corte, tramite la sentenza n. 9163 emessa in data 8 marzo 2005, hanno stabilito che “ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente anche i disturbi della personalità, seppur non sempre inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica fattispecie criminosa, per effetto del quale il fatto-reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale”.
Per questi motivi la Corte annulla la sentenza impugnata, rinviandola per un nuovo giudizio a un’altra sezione della Corte d’Appello di Roma.