Italiani emigrati all’estero: chi, quanti e perché?

Alcuni dati per comprendere meglio le caratteristiche dell'emigrazione italiana degli ultimi anni.

Secondo i dati dell’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, l’Italia nel 2016 è tornata ai primi posti, precisamente ottava, nella classifica dei paesi di nuova emigrazione. Secondo l’AIRE, l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, gli italiani residenti all’estero a oggi sono 5 milioni e di questi 224 mila quelli che si sono trasferiti nel 2016, pochi meno di quelli dell’immediato dopoguerra.

Le mete più frequenti sono Germania e Regno Unito, seguite da Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Svizzera. La maggior parte dell’emigrazione italiana si concentra dunque in Europa (i 3/4), ma diventano sempre più numerosi i connazionali che scelgono paesi extracomunitari, soprattutto Argentina, Brasile, Canada, Stati Uniti e Venezuela. Secondo gli studi dell’OCSE, i 2/3 di coloro che si trasferiscono all’estero decidono di non fare ritorno in patria.

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Ma chi sono i connazionali che scelgono di lasciare l’Italia per vivere in un paese straniero?

Per lo più si tratta di giovani tra i 25 e i 34 anni, il 45%, ma aumentano sempre di più i giovanissimi (20-24 anni) ed è stata rilevata una notevole crescita anche tra i 50-54enni che scelgono di vivere fuori dall’Italia.

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Per quanto riguarda la formazione di questi emigrati, negli ultimi anni è emersa un’interessante inversione di tendenza: se nel 2002 il 51% era costituito da cittadini con licenza media, nel 2006 il dato si è ridotto al 30% ed è aumentata notevolmente la percentuale di diplomati e laureati.

Sempre di più anche coloro che decidono di trasferirsi all’estero per studiare. Secondo il Censis il 30% degli universitari italiani oggi studia, anche per brevi periodi di tempo, all’estero e se molti di questi studenti hanno comunque intenzione di tornare in Italia per lavorare o proseguire gli studi, per molti altri il passo dallo studiare al lavorare all’estero è breve e già il 4% dei neolaureati italiani l’ha compiuto. Uno dei motivi di questa scelta sempre più popolare risiede senz’altro nella retribuzione: gli stipendi per il primo incarico dopo la laurea all’estero sono in media superiori a quelli italiani del 30%.

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Sempre dagli studi del Censis emerge inoltre un’importante considerazione sulla valorizzazione della meritocrazia, altro grande fattore di attrazione per gli italiani all’estero: il 22,4% dei nostri concittadini espatriati sostiene infatti di aver trovato lavoro con una semplice inserzione, mentre in Italia una percentuale analoga va riferita ai posti ottenuti tramite «conoscenze amicali o parentali».

Si tratta di una fuga di cervelli? Alla luce dei dati sarebbe azzardato, almeno per il momento, parlare in questi termini. I profili formativi dei giovani italiani all’estero infatti in generale non si differenziano eccessivamente da quelli di chi ha scelto come luogo di lavoro l’Italia, per cui la discriminante si limiterebbe esclusivamente ad una questione di intraprendenza e predisposizioni personali. Tuttavia, per quanto riguarda i laureati, tra quelli che lavorano all’estero risulta leggermente più elevata la quota di laureati in corso (22,1% contro il 18,6% di quelli rimasti in Italia) e con il massimo dei voti (32,2% contro il 26,2%).

Chi per studio chi per lavoro dunque, sono sempre di più gli italiani che lasciano l’Italia e un’ultima considerazione interessante che emerge alla luce dei dati dei principali istituti di ricerca riguarda la provenienza di questi emigranti, per lo più originari del Nord Italia: la Lombardia è infatti la terza regione da cui più italiani scelgono di emigrare all’estero (prime a pari merito Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia), mentre regioni con una radicata storia di emigrazione come Campania, Puglia e Basilicata si trovano agli ultimi posti in termini di emigranti all’estero.

Ma se la Lombardia è la regione più ricca d’Italia, come mai così tanti giovani decidono di lasciarla? Le chiavi di lettura di questo dato potrebbero essere diverse. Senz’altro esiste il fattore delle maggiori opportunità, quindi in molti casi quella di trasferirsi all’estero per lavoro è una scelta vista come un’occasione di arricchimento culturale e professionale, magari al servizio di aziende italiane, dunque in casi come questo l’espatrio dalla regione più ricca d’Italia va letto come conseguenza del suo sviluppo economico e delle maggiori opportunità di collaborazione internazionale che offre.

Questo tuttavia non può essere l’unico fattore, poiché la tesi della consequenzialità tra crescita economica e opportunità nella regione di provenienza e la scelta di lavorare all’estero vacilla nel momento in cui si osservano le tendenze di altri paesi europei, come la Spagna: dopo la fine della crisi e l’inizio della ripresa spagnola infatti, il numero di emigrati non è cresciuto come in Italia, ma anzi si è ridotto, passando dai 75.765 del 2015 ai 67.738 del 2016, mentre nello stesso arco di tempo gli emigrati italiani sono aumentati di 30 mila unità.

Dunque laddove alla fine della crisi economica in Spagna sempre più spagnoli hanno deciso di rimanere il patria, in Italia sempre più cittadini hanno deciso di espatriare. Analoga a quella spagnola la situazione in Germania e negli altri paesi europei, dove all’uscita dalla crisi economica gli emigrati all’estero sono diminuiti (l’unica eccezione insieme all’Italia è costituita dal Regno Unito dove, probabilmente per effetto della Brexit, gli emigrati sono aumentati notevolmente). Dunque la realtà che emerge è che se nel proprio paese di origine le condizioni economiche migliorano e si verifica un reale aumento delle opportunità di lavoro, la scelta più diffusa e popolare è quella di rimanere in patria, non di lasciarla.

Alla luce di tutto ciò, avanza sempre di più l’ipotesi che, nella maggior parte dei casi, il motivo per cui tanti italiani anche nelle regioni con più opportunità decidono di lavorare all’estero non dipenda tanto nella scelta di godere delle occasioni offerte dalla globalizzazione e dalla collaborazione tra enti e aziende italiane e straniere, quanto soprattutto della decisione di non accontentarsi delle opportunità lavorative offerte in Italia, nella maggior parte dei casi inferiori a quelle a cui il titolo di studio conseguito farebbe aspirare e sempre più spesso nella forma di contratti precari.