Tatoué: il robot tatuatore

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Già nel lontano 1844, Karl Marx postulava ben quattro tipi di alienazione che caratterizzavano l’operaio nella moderna società industriale: il progresso tecnologico, l’avvento e la sempre maggiore adozione all’interno delle fabbriche di macchinari sofisticati, avevano sostituito il lavoro artigianale e la stessa capacità produttiva dell’individuo con una monotona attività di controllo dei macchinari stessi. La manualità degli artigiani, l’essenza dell’uomo sociale, si era così ridotta a semplici movimenti e piccoli spostamenti tali da rendere l’operaio alienato rispetto al prodotto del suo lavoro, poiché egli produce beni che non gli appartengono in alcun modo, rispetto alla propria attività, perché non produce per se stesso ma per il capitalista, rispetto alla sua stessa essenza, essendo il lavoro dell’operaio forzato e ripetitivo e, infine, rispetto al suo prossimo, dal momento in cui il lavoro nelle fabbriche non permette socialità e socializzazione.

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Ho aperto questa piccola parentesi per arrivare ora a parlarvi di Tatoué, il primo robot tatuatore al mondo messo a punto da due designer francesi, Pierre Emm Johan da Silveira. I due ragazzi si sono conosciuti alla ENSCI les Ateliers, una tra le più importanti scuole di design della Francia. L’idea nasce proprio durante un workshop scolastico per poi concretizzarsi grazie alla collaborazione con con la compagnia di stampa 3D, Le FabShop, la quale, apprezzando l’originalità, ha realizzato i sogni dei due giovani artisti ottimizzando e perfezionando l’idea di un robot che realizzasse tatuaggi reperendo il materiale da riprodurre da una banca di immagini digitali.

Ora, prendi una stampante 3D, forniscile l’ago di un tatuatore e… puff! Ecco l’ennesimo lavoro robotizzato. Ecco l’ennesima macchina capace di sostituire l’uomo, il suo ingegno, la sua creatività. Perché non vi è niente di più creativo dell’attività disegnatoria, dell’esprimersi mediante un pennello o una matita, del dare sfogo alle proprie voci interiori e riuscire, in qualche modo, a trasmetterlo agli altri o, ancora, riuscire ad interpretare le storie, le esperienze, le vite degli altri e scriverlo sulla loro pelle. Nulla di più creativo, nulla di più vitale. Eppure la scienza e la tecnologia sembrano starci privando anche di questo diritto, del diritto ad esprimerci mediante l’arte, perché in una società intrisa di tecnologia, l’arte è l’unica attività puramente ed esclusivamente umana che ci è rimasta. E noi accettiamo tutto quel che ci viene donato senza coglierne la gravità, adattandoci alle proposte che ci vengono imposte alle quali non possiamo rispondere se non incorporandole nella nostra quotidianità, perché in un modo o nell’altro da tutta questa tecnologia si viene travolti, e dell’essere stati travolti ce ne rendiamo, spesso, molto tardi, quando c’è poco da fare. Intanto continuiamo apprezzando l’ennesima invenzione tecnologica, l’ennesimo passo avanti. Un passo avanti sì, ma verso dove? Verso quale società, o meglio, civiltà?

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