12 Anni Schiavo

12 anni schiavo

(12 Years a Slave) USA 2013, drammatico. Regia di Steve McQueen. Con Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Brad Pitt, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti, Sarah Paulson, Lupita Nyong’o, Alfre Woodard, Garret Dillahunt, Chris Chalk, Quvenzhané Wallis.

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Schiavo. Oggi con il termine “schiavo” si indica una condizione sociale e lavorativa illegale, ai limiti della concezione umana, a cui vengono sottoposte tante persone che vengono sfruttate per lavori e mansioni che nessuno vuol fare e che accettano queste tremende condizioni di vita per necessità di sopravvivenza. Non esistono più ferraglie che incatenano i polsi e le caviglie degli sfruttati, ma l’esigenza di guadagnare almeno il minimo per mantenere in vita se stessi e i familiari ne rappresenta una forma simile anche se non materiale.

Negro. Invece questa parola viene ripetutamente usata per offendere il diverso, chi ha un colore di pelle differente e che si vuole disprezzare solo perché ci si ritiene superiori e perché si ha paura del suo arrivo. Lo si odia e lo si teme.

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Ci fu un tempo, troppo lungo, che questi due termini coincidevano e avevano anche un significato e un utilizzo ben più grave e disumano. Lo schiavismo negli Stati Uniti iniziò diversi secoli fa a causa del bisogno enorme di mano d’opera per il lavoro agricolo nei campi, specialmente negli stati meridionali e quando oltre la metà del ‘700 fu vietata l’importazione degli schiavi africani per non farne aumentare a dismisura il numero, si creò un fenomeno simile all’interno degli Stati stessi e cioè il rapimento e la deportazione di gente di colore dal nord al sud, dove appunto la schiavitù veniva ancora bellamente praticata. E lì e in quei tempi i due termini “schiavo” e “negro” non solo coincidevano ma venivano usati sempre e solo con intenti razzisti e oltremodo offensivi, per indicare una sottomissione naturale al bianco anche dal punto di vista genetico. Come fosse una legge della Natura. In questo film la parola schiavo è usata come per indicare un oggetto proprio, un oggetto di proprietà; e la parola negro è urlata continuamente come termine profondamente dispregiativo, come una etichetta stampata sulla pelle, come una condanna definitiva.

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E’ proprio così e in questo contesto storico che iniziano le disavventure (termine perfino riduttivo) del povero Solomon Northup, uomo di colore nato libero e esemplare cittadino, agiato e con una bella famiglia, residente nella contea di Saratoga nello stato di New York, di professione violinista. E’ il 1841, prima ancora dello scoppio della Guerra di Secessione, che questa tranquilla e socievole persona viene contattata da un paio di tizi, apparentemente generosi e ben educati, che gli promettono un buon ingaggio per un lavoro di violinista per un breve periodo a Washington. In realtà sono come il Gatto e la Volpe per Pinocchio, in quanto l’offerta di lavoro è semplicemente un inganno, un tranello per ridurlo in catene e trasportarlo nel sud del Paese, in Louisiana, dove appunto i campi di canna da zucchero e di cotone necessitano di tanta mano d’opera e i grandi proprietari terrieri schiavisti si recano presso mercanti di schiavi per comprare validi uomini da sfruttare nei campi e donne, possibilmente aggraziate, da utilizzare anche come procreatrici di futuri schiavi, anche con il loro personale “intervento”. Si può ben immaginare lo stupore, lo sconcerto e lo sconforto di Solomon quando si scopre prigioniero e futuro schiavo, lui nato e vissuto libero e senza più notizie della moglie e dei figli. Tenta in tutti i modi di far presente ai suoi aguzzini la sua vera condizione e la sua identità, che anzi viene subito cancellata: il mercante di schiavi, un pacioso e irremovibile Paul Giamatti, dal cognome beffardo di Freeman (!), gli affibbia il nome di Platt giusto per fargli capire che lui è ormai un altro, che può benissimo scordarsi la sua vita precedente. Gesto che è la prima delle violenze psicologiche e fisiche che viene inflitta al tranquillo e onesto Solomon che deve dimenticare anche il suo nome di battesimo, per iniziare una nuova esistenza, cancellare quella precedente in maniera definitiva. Qui inizia la sua Via Crucis, simile a quelli di tutti gli altri schiavi: lavoro, lavoro e lavoro, frustate a decine, a centinaia, quando il rendimento cala; punizioni severissime in caso di minima ribellione o scarso rispetto verso il padrone e la sua famiglia, oppure la semplice antipatia da parte dei guardiani. Uno di questi, John Tibeats (Paul Dano, ben scelto dal regista per questa parte, mi ha ricordato il finale de “Il petroliere”), è un efferato e nevrotico giovanotto che punta sin dal primo incontro l’ex uomo libero e dopo diversi maltrattamenti è vicino ad ucciderlo, appena salvato da uno dei pochi guardiani più sensibili alla pietà. Ma di personaggi, maschili o femminili, irascibili e cattivi ce n’è un mucchio, tutti pronti a urlare “Negro!” per farsi ubbidire o per il semplice gusto sadico di usare su questi sventurati ogni sorta di efferatezza. E quasi per mantenere alta la media di cattiveria, se William Ford (un eccellente Benedict Cumberbatch), il primo padrone di Solomon, è buono e generoso con i suoi schiavi, Edwin Epps (interpretato in maniera straordinaria da Michael Fassbender) è aldilà di ogni umana concezione della cattiveria. Epps è molto di più, è feroce bestiale aggressivo spietato disumano, mosso da una rabbia interna dovuta anche e non solo da fatto che è attratto dalla schiava Patsey (la bella Lupita Nyong’o), la desidera e ne abusa sempre in maniera violenta solo per dimostrare che è di sua proprietà e per negare a se stesso che ne sia in realtà addirittura innamorato.

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Il protagonista, uomo nato libero, Solomon Northup (“I was a free man” continua a ripetere e a ripetersi, quasi per non dimenticarlo) e poi reso schiavo col nome Platt (un esemplare Chiwetel Ejiofor) ne passerà e ne vedrà di ogni sorta e lo straordinario regista (black!) Steve McQueen, nonostante le scene girate, non ha voluto infierire sullo spettatore e ha deciso di diminuire la violenza, la spietatezza e le umiliazioni sopportate dagli sciagurati, ben descritte più efferate nel libro autobiografico scritto dal poi risorto Solomon. Nonostante le angherie subite, gli schiavi hanno perfino paura di uscire allo scoperto nei boschi che circondano le tenute coltivate, perché lì fuori la gente del Sud è parimenti intollerante e sanguinaria e, incredibilmente, uno schiavo è più tranquillo nella sua catapecchia e nei duri campi di lavoro che fuori, dove i pericoli perfino aumentano. Questa paura è scolpita sulla faccia dei poveri neri, sempre spaventata e atterrita, spesso rassegnata; anzi questo ultimo aggettivo esprime ancora meglio il loro stato d’animo: meglio non reagire e non prestare aiuto a chi sta peggio, perché solo così c’è un minimo di speranza di sopravvivere. Basti ricordare le scene delle impiccagioni o delle frustate in cui gli altri schiavi fanno finta di nulla e continuano la loro attività, come nulla stia succedendo. Però, all’incontrario, la frase che tiene in vita lui e la sua speranza è quella quando Salomon dice “Io non voglio sopravvivere, io voglio vivere”, esprimendo così la forte volontà di riuscire prima o poi a tornare alla vita che rimpiange.

E’ sicuramente un film dal taglio classico, con una trama lineare che ricorda i romanzoni tanto in voga tra gli scrittori dell’800, ma la realizzazione sullo schermo ha prodotto un lavoro nelle giuste corde del bravissimo regista, ne ha reso una immagine drammatica che va oltre il solito romanzo. Il tocco del regista mette in risalto ciò che hanno scritto tutti in merito a questa pellicola: la trilogia dei corpi. I corpi di Bobby Sands in “Hunger”, di Brandon Sullivan in “Shame”, di Solomon Northup di oggi. Tutti martoriati fisicamente e psicologicamente, con serie difficoltà di sopravvivenza (difatti, Bobby…). Questo è ancora, come è successo le altre due volte, un film autoriale, dove si nota bene che è la mano del regista che caratterizza l’opera, il suo stile che si esprime con l’occhio dell’artista visivo in percorsi altamente drammatici, con inquadrature straordinarie verso la natura, con il sole tra gli alberi del bosco, o con l’obiettivo rivolto sui volti atterriti e ammutoliti: confesso che gli sguardi verso la natura mi hanno ricordato un po’ Kubrick, un po’ Malick. E’ un gran bel film, su un argomento di cui si è parlato e scritto finora quasi solo in maniera romanzata e romantica, quasi mai affrontando le storie per quelle che sono, oppure girandoci intorno e prendendole con altri intenti. Vedasi il Django di Tarantino, dove tutto serviva a far spettacolo. Difatti come ha scritto “Variety”: Se Django Unchained ha aperto una porta, 12 anni schiavo l’ha spalancata. Indubbiamente ci troviamo davanti a un grande regista e la candidatura agli Oscar mi sembra meritata.

TWELVE YEARS A SLAVE

Bravo davvero Chiwetel Ejiofor, a mostrare tutti i sentimenti dal dolore, alla disperazione e alla speranza, giustamente premiato con la candidatura. E che dire dell’attore prediletto di Steve McQueen? Attenti: si commetterebbe un errore a considerare il ruolo di Michael Fassbender come “non” protagonista, un grave errore. Il suo super cattivo Edwin Epps è sicuramente un co-protagonista, sia per l’importanza del ruolo nella trama, sia per la presenza sullo schermo; il suo personaggio è cattivissimo in maniera affascinante, il suo modo di aggredire chi gli sta intorno è brutale ma abbagliante. L’ho trovato un personaggio magnetico! Tutto merito della chimica creativa esistente tra attore e regista. Particolare poi il ruolo di Brad Pitt (anche tra i produttori) un falegname canadese generoso e indulgente, antischiavista e con una barbetta da amish, che sarà la chiave per la liberazione e il ritorno di Solomon nell’ambito della sua famiglia. Molto belle le musiche dell’esperto Hans Zimmer, che curiosamente a tratti ricordano quelle (non sue) di “Shame”.

Film bellissimo e girato secondo le giuste attese per un regista ormai così affermato.

Le mie ultime considerazioni riguardano la distribuzione in Italia. L’episodio della locandina  – che avevano deciso di diffondere con il profilo di Brad Pitt che avrebbe, secondo loro, attratto più pubblico invece del protagonista Ejiofor – è stato paradossalmente l’atto più discriminatorio per pubblicizzare un film antirazzista. Un vero infortunio, riparato e corretto quando ormai la frittata era stata fatta. Infine un mio personale appunto per il solito superficiale adattamento del titolo in italiano: quello originale “12 years a slave” con l’articolo “a” rende molto di più l’idea delle sofferenze del povero uomo, che appunto voleva far sapere che era stato sempre un uomo libero e poi per 12 anni  uno schiavo. Fortunatamente solo per dodici anni.