L’arte era libera durante il regime fascista?

La politica del consenso e dell'adesione ai valori del fascismo nel Ventennio

Potere, politica e cultura

Tra cultura, potere e politica in genere esiste uno stretto rapporto da sempre. Ad esempio, se oggi noi italiani apparteniamo tutti alla stessa nazione, una parte di merito va anche all’opera lirica, poiché nella seconda metà dell’800 questa forma d’arte era la più seguita e alcuni intellettuali, per la capacità del teatro musicale d’offrire vicende e personaggi nei quali immedesimarsi, la scelsero quale veicolo d’ideali di libertà e di ribellione al giogo dello straniero. Non a caso, l’inno del Risorgimento fu il “Va pensiero” dall’opera “Nabucco” di Giuseppe Verdi e non a caso il fascismo puntò molto sul cinema per diffondere la sua dottrina; la “settima arte” stava sostituendosi all’opera lirica nell’attenzione del pubblico e, con mezzi diversi, offriva anch’essa vicende e personaggi da imitare nelle loro gesta.

Margherita Sarfatti, la musa ispiratrice del Duce

La questione di elaborare un’arte di Stato si presentò già agli albori del fascismo. Margherita Sarfatti, musa e amante di Mussolini, tentò immediatamente di proporla e attuarla, fino al momento del suo allontanamento. La Sarfatti, assieme al gallerista Lino Pesaro e ad alcuni artisti suoi protetti, costituì il gruppo milanese “Sette Pittori del Novecento” e fu lo stesso Mussolini ad essere presente all’inaugurazione della prima mostra del gruppo alla Galleria Pesaro di Milano nel marzo 1923.
Tuttavia, il discorso pronunciato da Mussolini in quella circostanza prese le distanze dal progetto di “un’arte di Stato”, come avvenne invece successivamente nell’Unione Sovietica, in Cina o nella Korea del Nord.

L’arte era davvero libera durante il regime fascista?

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Nel 1937, Hitler aveva dato un segnale molto forte con la Mostra dell’Arte degenerata a Monaco, nella quale aveva indicato con chiarezza quali artisti e quali movimenti non avrebbero trovato posto nella cultura del regime. Mussolini agì diversamente e si dichiarò favorevole alla totale libertà di espressione degli artisti. «Non si può governare ignorando l’arte e gli artisti», essendo «l’arte una manifestazione essenziale dello spirito umano». In buona sostanza, il Duce confermò il suo appoggio al fare artistico poiché «in un Paese come l’Italia sarebbe deficiente un Governo che si disinteressasse dell’arte e degli artisti», ma concluse con chiarezza indiscutibile e perentoria che «è lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato», poiché l’arte rientra nella sfera dell’individuo, e «Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale»; in questa visione il governo fascista è «un amico sincero dell’arte e degli artisti»

Un regime di libertà. Forse.

Non dobbiamo prendere quest’affermazione alla lettera, poiché il fascismo utilizzerà ampiamente il controllo, la censura dei mezzi d’informazione e dell’arte ma, soprattutto durante i primi anni, gli obiettivi della politica culturale fascista erano rivolti a favorire l’affermazione, per gli intellettuali, che essi vivevano sotto un “regime di libertà” il quale rispettava l’individualità e l’autonomia, al contrario del comunismo.

Il ritorno all’ordine

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L’anno successivo alla Marcia su Roma. Margherita Sarfatti – critico d’arte e amante del Duce, costretta a fuggire dall’Italia dopo le leggi razziali – tentò di presentarsi quale punto di riferimento di un’espressione fascista. Con i pittori Achille Funi e soprattutto Mario Sironi tentò di rappresentare il ‘900 e un “ritorno all’ordine”. Ma il suo astro iniziò a calare presto come donna e persona di cultura, tanto che il 9 luglio 1929 Mussolini, su carta intestata “Il Capo del Governo”, le scrisse intimandole freddamente e senza mezzi termini di evitare riferimenti ad un’ “arte fascista”.
Protetti dalla Sarfatti erano i Maestri Carlo Carrà, Antonio Donghi, Felice Casorati, Giorgio Morandi, Fortunato Depero, Gino Severini, Mario Sironi, Arturo Martini, Leonardo Dudreville. Il loro punto di riferimento fu l’antichità classica, di intramontabile fascino, con opere armoniose, improntate ad una serena purezza lontane dalle sperimentazioni avanguardistiche dei futuristi.

La politica culturale di Cipriano Efisio Oppo

Roberto Farinacci criticava aspramente la linea “moderna” e internazionalista della Sarfatti, pur se intrisa dei valori del Regime, e chiedeva a gran voce un’arte di diverso segno: italico, realista, celebrativo. Tuttavia, Mussolini, che aveva resistito alle insistenze della sua amante, donna ben più scaltra e intelligente di Farinacci, evitò d’avvalorare e imporre questo indirizzo. L’affidamento della politica artistica, a partire dalla fine degli anni venti, fu affidata a Cipriano Efisio Oppo, che garantirà una totale libertà di espressione estetica anche nel decennio seguente.

L’adesione alla visuale fascista

Il rapporto tra arte e politica durante il fascismo, quindi, fu estremamente ricco di sfumature e il rapporto arte-fascismo risulta certamente sorprendente, se confrontato con le scelte di altri regimi dittatoriali. Agli artisti fu permessa una straordinaria libertà d’espressione e questi ricambiarono con un consenso generale, fino alla promulgazione delle leggi razziali e all’entrata dell’Italia nella guerra mondiale. Possiamo quindi affermare che un tratto comune nell’arte lo si deve ad una adesione spontanea alla visione fascista e non ad una scelta obbligata e coercitiva, poiché anche interpretazioni diverse ebbero la possibilità di esprimersi.

Il comunista Guttuso vince il premio Bergamo nel 1939

Un esempio. Bottai, da Ministro della Cultura, istituì il Premio Bergamo nel 1939, dunque in anni già difficili per qualsiasi libertà di espressione, dove furono premiati, tra gli altri, de Pisis, Mafai, Guttuso e Birolli: il primo era notoriamente omosessuale, gli altri due altri non nascondevano la loro avversione per il fascismo, essendo vicini al Partito Comunista, come già da tempo lo era Birolli.

I ruoli di Giuseppe Bottai e Giovanni Gentile

Un ruolo culturale fondamentale durante il fascismo fu quello di Giuseppe Bottai, che da una giovinezza futurista era divenuto ministro economico, promotore di artisti e di opere pubbliche ed infine ministro dell’Educazione nazionale, con la delega alle Belle Arti. Analogamente, Mussolini aveva incaricato il filosofo Giovanni Gentile per tracciare le linee della cultura nazionale e della formazione.

Apertura all’arte straniera

La linea generale fu di apertura verso l’arte straniera, pur auspicando un’italianità di fondo nella ricerca estetica. In un discorso alla Camera sulla situazione dell’arte tenuto nel 1929, Oppo sostenne che «non bisogna essere intransigenti, nemmeno su quello che può essere l’apporto artistico straniero: se si fosse stati intransigenti in altri tempi, tanto per portare un solo esempio, non si sarebbe permesso a Giotto di costruire il suo campanile in stile gotico!»

La promozione dell’arte italiana

Grazie a un sistema di sostegno pubblico, l’arte italiana si presentò con successo nei vari contesti mondiali con la partecipazione massiccia alle principali mostre internazionali dell’epoca e alle mostre di arte italiana organizzate in varie capitali mondiali.
Fu così possibile presentare una pluralità di voci e di stili sempre rappresentati nelle mostre pubbliche, tanto da far nascere aspre polemiche da parte di aree più conservatrici, capeggiate da Farinacci, contro gli espressionismi, surrealismi, astrattismi e classicismi che caratterizzavano altri.
Così Mussolini all’Accademia delle Belle Arti di Perugia: «L’arte segna l’aurora di ogni civiltà; senza l’arte la civiltà non è. Noi non dobbiamo rimanere dei contemplativi, non dobbiamo sfruttare il patrimonio del passato. Noi dobbiamo creare una arte nuova, un’arte dei nostri tempi, un’arte fascista» e Bottai concluse che più che un’arte per lo Stato bisognava domandarsi cosa poteva fare lo Stato per l’arte, lasciando aperta ogni strada.
Fine del consenso con le leggi razziali
Quest’apertura si incrina alla fine degli anni Trenta con l’emanazione delle leggi razziali, alla fine del 1938. Emergono in quel momento altre generazioni di artisti che matureranno nel dopoguerra le quali abbracceranno un espressionismo realista, lontano da qualsiasi romanità. É lo specchio di un regime che perde i suoi ultimi punti di equilibrio e precipita nel baratro della guerra.

Perché gli intellettuali sostennero il fascismo?

Tra il 1922 e il 1938/40, il fascismo seppe affascinare e legare a sé un gran numero di intellettuali e artisti, attraverso una pressoché totale libertà espressiva, teorizzata ed effettivamente concessa, e parimenti attraverso un’efficace organizzazione di mostre in Italia e all’estero. A ciò si deve aggiungere che, nello Stato fascista degli anni Venti, forti risorse pubbliche furono destinate agli acquisti di opere e di commissioni ufficiali. Queste risorse aumentarono considerevolmente a partire dagli anni Trenta, attraverso soprattutto acquisti, premi e commissioni di opere per edifici pubblici. Questa politica di sostegno, indirizzata senza pregiudizi o preferenze a ogni indirizzo artistico e stilistico, si rafforzò in coincidenza con la grande crisi del 1929. In tutta Europa, le possibilità di vendita delle opere si erano ridotte ai minimi termini, con un conseguente abbattimento delle quotazioni. Di conseguenza, molti artisti italiani residenti all’estero, in particolare in Francia, stentavano a sopravvivere e rientrarono in Italia con la promessa (mantenuta) di acquisti e commissioni pubbliche. L’atteggiamento dell’intero ambiente artistico nei confronti del regime fu quindi quello di gratitudine e simpatia, di consenso, che era poi l’obiettivo principale.

Conclusioni

Negli anni del dopoguerra e fino a tempi nostri si è parlato con disprezzo e semplicismo di “Arte fascista” quale prodotto necessario e scontato di uno Stato totalitario al quale faceva da “controcanto” minoritario un’arte “di fronda”, antifascista e vicina all’ideologia comunista. E’ un’immagine riduttiva, efficace dal punto di vista comunicativo, potremmo quasi dire da “regime” occulto, ma fondamentalmente falsa nella sostanza. Questa valutazione ha significato ovviamente una sorta di condanna morale e politica per gran parte degli artisti italiani tra le due Guerre. L’arte del Ventennio venne considerata quale risultante di un programma definito di ideologie totalitarie, senza domandarsi se una vera e propria arte di Stato fosse mai esistita e, in tal caso, a quali direttive obbedisse. Anche per la supposta “arte di fronda”, o antifascista, ci si basò soprattutto su una versione critico-politica del dopoguerra, costruita per lo più su conversioni tardive di artisti all’antifascismo, anche se nel Ventennio avevano assecondato l’ideologia del littorio. Nell’impegno che ogni cosa realizzata durante il fascismo dovesse cadere nell’oblio per cancellarlo dal ricordo, abbiamo dimenticato Maestri ed opere che, solo per conoscenza culturale e di quello che fu il nostro percorso artistico, avrebbero meritato rispetto, considerazione e studio. Continuare a rimuovere quello che fu, nel bene e nel male, un periodo della nostra Storia, conduce ad una sola spiegazione: la nostra democrazia è fragile e il fascismo incute ancora timore per l’attrazione che può esercitare. Demonizzare un periodo storico o un personaggio, lo rende affascinante per alcuni; è lo stesso meccanismo psicologico del divieto, del proibito. La conclusione serena e distaccata alla quale si deve ormai giungere è che riscoprire “Le Quattro Stagioni di Vivaldi”, arrivare secondi alle Olimpiadi di Los Angeles, vincere due volte di seguito i campionati mondiali di calcio o conquistare l’indennità di disoccupazione, ci è costato troppo caro. Un prezzo impagabile.

Massimo Carpegna

Massimo Carpegna
Massimo Carpegnahttp://www.massimocarpegna.com
Docente di Formazione Corale, Composizione Corale e di Musica e Cinema presso il Conservatorio Vecchi Tonelli di Modena e Carpi. Scrittore, collabora con numerose testate con editoriali di cultura, società e politica.