E l’Aretin che rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando»…
Così è nel trentesimo canto dell’Inferno di Dante, quello dedicato ai falsari. Per descrivere i falsari di persona, e cioè coloro che si sostituiscono ad altri, Dante racconta che Griffolino d’Arezzo gli svela chi sono coloro che sta osservando. Un’anima è quella di Gianni Schicchi e allora Dante s’affretta a chiedergli chi sia l’altra giunta in preda alla furia. Griffolino risponde che è Mirra, la figlia che s’innamorò del padre contro tutte le leggi morali. La donna, pur di giacere con lui, si era finta un’altra donna, mentre Gianni Schicchi aveva simulato d’essere il defunto Buoso Donati, per assegnarsi, con un testamento falso, la più bella giumenta della sua mandria. Udite le parole dell’alchimista Griffolino, Dante passa a osservare gli altri dannati della Bolgia.
La storia di Gianni Schicchi
La storia di Gianni Schicchi, con le dovute modifiche, divenne parte del “Trittico” composto da Giacomo Puccini che difatti annovera anche le opere Suor Angelica e Il tabarro. Quest’opera in un atto, come le altre due, stupì il pubblico di Puccini, abituato a vicende tragiche e lacrime in abbondanza. Gianni Schicchi è una delle più gioiose opere comiche della storia della musica. Raccontiamone in sintesi la storia.
Il libretto
Ci troviamo a Firenze, il primo settembre del 1299. Buoso Donati, nobile ricchissimo, è appena morto e i suoi parenti lo piangono intorno al letto. Tutti si disperano, ma in verità stanno pensando al denaro che potrebbero ereditare. Ad uno di loro viene il sospetto che la ricchezza di Buoso potrebbe andare a finire altrove. Ha sentito dire il giorno prima da un tale: «Se Buoso crepa, pei frati è manna: diranno pancia mia fatti capanna». Serpeggia il timore tra i presenti. Bisognerebbe vedere il testamento, ma non lo si trova. E allora Simone, il più vecchio del gruppo, concede una perla della sua saggezza: «Se il testamento è in mano di un notaio, chi lo sa, forse è un guaio; se però ce l’avesse lasciato in questa stanza, guaio pei frati ma per noi speranza!».
Naturalmente, tutti si precipitano a cercare il documento, mettendo sottosopra la stanza, ma finalmente eccolo! Il timore era giustificato: Buoso ha lasciato la sua ricchezza ai frati dell’Opera di Santa Reparata. Cosa fare per evitare questa fine beffarda? Spunta il nome di Gianni Schicchi, un borghese conosciuto per la sua intelligenza, conoscenza delle leggi e astuzia.
Qualcuno è contrario, perché non c’è da fidarsi di uno che non è nobile e appartiene alla gente nova, ossia non è originario di Firenze. Ma Rinuccio – che fra l’altro è fidanzato con Lauretta, la figlia di Schicchi – convince i parenti che sbagliano in quel loro giudizio prevenuto: tanti artisti e scienziati, pur appartenendo alla gente nova, hanno fatto ricca e splendida Firenze. E poi l’aveva già fatto chiamare. Arriva Gianni Schicchi. Sapendo che la maggioranza dei presenti lo disprezza, dapprima si rifiuta di aiutarli, ma Lauretta lo implora con l’aria più famosa di tutta l’opera: O mio babbino caro. Allora Schicchi inizia a pensare, ma sopraggiunge il medico, venuto a controllare Buoso. Schicchi, per non essere importunato, da dentro la stanza imita la voce del nobile ricco con una tale perfezione, che il dottore se ne va per lasciarlo riposare. Tutti sono sorpresi: la voce di Schicchi è uguale a quella di Buoso!
Ecco la soluzione: nessuno sa che Buoso è spirato e allora Schicchi lo sostituirà! Il morto viene portato via e il nostro falsario d’identità prende il suo posto sul catafalco. Nella penombra non si noterà la differenza e presto viene chiamato il notaio per raccogliere le ultime volontà. Prima di procedere, Schicchi avverte che a tale riguardo c’è una legge severissima: “Per chi sostituisce se stesso in luogo d’altri, in testamenti e lasciti, per lui e per i complici c’è il taglio della mano e poi l’esilio. Ricordatelo bene: se fossimo scoperti, la vedete Firenze? Addio Firenze, addio cielo divino, io ti saluto con questo moncherino e vo’ randagio come un ghibellino“. I parenti, spaventati, si guardano l’un l’altro.Ogni ipotetico erede si rivolge a Schicchi e gli propone una lauta ricompensa, se nel dettare il testamento gli concederà i pezzi più pregiati dell’eredità: la casa, la mula e i mulini di Signa. Schicchi conferma a tutti che saranno accontentati. Entra il notaio con due testimoni e nessuno dei tre mette in dubbio che, sdraiato sul letto, non ci sia Buoso Donati. Inizia il dettato, ma Schicchi lascia a se stesso ogni cosa: la casa, la mula e i mulini di Signa, fra le proteste soffocate dei parenti che non possono fare denuncia o saranno accusati d’essere complici.
Con precisione appunto notarile, il notaio annota le ultime volontà e lascia la casa per registrare il testamento. Allora Schicchi sbatte fuori e malamente anche i parenti: quella casa, ora, è sua! Restano solo Rinuccio e Lauretta, che si potranno sposare e abiteranno lì per sempre. Il commento finale di Gianni Schicchi è recitato verso il pubblico, una sorta di “morale della favola” a richiamar l’applauso: «Ditemi voi, Signori, se i quattrini di Buoso potevan finir meglio di così… per questa bizzarria m’han cacciato all’inferno, e così sia. Ma con licenza del gran padre Dante, se stasera vi siete divertiti, concedetemi voi l’attenuante!».
La musica di Puccini
Veniamo alla musica. La scena del testamento è semplicemente geniale e abbisogna di un grande baritono, che sappia essere anche attore di eccellente qualità. A questo proposito, memorabile fu l’interpretazione di Tito Gobbi, così come oggi è ancora interprete incontrastato Leo Nucci. Le liriche dell’opera sono state scritte dal fiorentino Giovacchino Forzano: uomo poliedrico – avvocato, scrittore, giornalista, regista cinematografico, librettista – e, come tutti i toscani doc, dotato di quella graffiante comicità che in parte si riversa nell’opera e nell’interpretazione deve emergere non di maniera. I versi presentano una freschezza che sicuramente ha spronato Puccini ad essere altrettanto giovane spiritualmente, nonostante che la sua carriera si avviasse ormai alla fine. Il Trittico, infatti, è il penultimo lavoro che precede l’opera Turandot, rimasta incompleta.
O mio bambino caro
Abbiamo precedentemente indicato l’aria O mio babbino caro quale momento culminante dell’opera e popolarmente conosciuto; la funzionalità di questo brano, eseguito da Lauretta, la figlia di Gianni Schicchi, è quello di convincere il padre ad intervenire a risolvere la situazione. In un primo momento, lui non è convinto, non vuole sentire ragioni, disgustato dall’ingordigia dei presunti eredi della ricchezza di Buoso Donati. Ma la figlia riuscirà a fargli cambiare idea.
Dopo l’introduzione orchestrale, il brano si può suddividere in tre sezioni: la prima parte è l’esposizione tematica in forma regolare di 8 battute con il periodo cadenzato alla Dominante del Lab d’imposto. Segue una ri-esposizione ampliata, un altro periodo regolare di 8 battute al quale si somma, dopo una cadenza evitata, una ulteriore frase di 4 battute che precede la ripresa-coda. In essa si trovano due corone successive per il soprano, che mettono in risalto la sospensione interlocutoria, l’attesa di quella che sarà la risposta di Gianni Schicchi alle suppliche della figlia.
L’intera composizione di O mio babbino caro è saldamente in Lab Maggiore ed è da evidenziare un intervallo che diventa tematico: quello della terza minore ascendente, che in questo caso attribuisce un senso di morbidezza e di delicata femminilità. Ricordiamone il testo:
O mio babbino caro,
Mi piace è bello, bello;
Vo’ andare in Porta Rossa
a comperar l’anello!
Sì, sì, ci voglio andare!
E se l’amassi indarno,
andrei sul Ponte Vecchio,
ma per buttarmi in Arno!
Mi struggo e mi tormento!
O Dio, vorrei morir!
Babbo, pietà, pietà!…
Babbo, pietà, pietà!
Lauretta e Maria Callas
Tra le tante interpreti, memorabile è stata Maria Callas che nei suoi recital sovente inseriva quest’aria nel programma. Ad una attenta osservazione dei filmati a disposizione, è evidente che l’insuperabile interprete applica i suggerimenti indicati da Kostantin Stanislavskij, il celebre regista russo che rivoluzionò il teatro (e anche l’opera lirica) con il suo metodo.
Nella vocalità, nella postura, nell’espressione della Callas, appare quello che Stanislavskij chiamava reviviscenza: il richiamare alla memoria i sentimenti e le emozioni già vissute, affinché rivivano nel personaggio. Nella Lauretta della Callas, osserviamo che la sua supplica verso il padre si tramuta in quella di una bambina che mette in campo tutte le armi emotive per raggiungere lo scopo: piagnucola, sgrana gli occhi innocenti, esibisce la sua fiducia infinita nel padre, che nessuno avrebbe il coraggio di deludere, così come nessuno avrebbe il coraggio di ferire una bimba così ingenua, delicata, innamorata.
Eppure, la Lauretta di Gianni Schicchi ha ventun’anni ed è prossima al matrimonio: perché proporla neppure adolescente? Maria Callas ha vissuto un’infanzia tranquilla, del tutto uguale a quella delle altre bambine ma, divenuta adolescente e giovane donna, la sua vita è cambiata repentinamente. La divina aveva una sorella maggiore di sei anni, Jakinthy detta Jackie, che era la prediletta. Lei non era tendente all’obesità, non soffriva di una forte miopia; a lei erano riservate le lezioni di canto e pianoforte, lezioni che Maria era costretta solo ad ascoltare da dietro la porta. Non poteva esserci un futuro per Maria, brutta e grassa! Ecco perché il soprano, per rivivere sulla scena l’emozione di un affetto forte con i genitori e di un loro ascolto, ha dovuto ricordare anni precedenti a quelli indicati per Lauretta.
Per concludere, la trasposizione pucciniana di Gianni Schicchi, personaggio descritto da Dante, è l’unico esempio dell’autore che strizza l’occhio alla commedia comica, lui, Maestro incontrastato dell’amore ideale, eroico, che si conclude in tragedia (tranne che nell’ultima opera Turandot) e suscita il pianto. Puccini è negli ultimi anni della sua esistenza, alla ricerca di un nuovo modo di porsi al pubblico e forse di un entusiasmo che tutti abbandona nel tempo della vecchiezza. Ancora una volta dimostra la sua genialità, che si esprime nel saper raccontare la commozione come il riso, la prostrazione come il virile eroismo, la delicatezza così come una roboante epicità. Nessuno più di Puccini fu uomo di teatro che, al pari di tutti i sommi attori, seppe nella sua arte essere caratterista, drammatico e buffo. Gianni Schicchi è il solo esempio, come detto, di quest’ultimo genere, poiché come scrisse Peppino De Filippo “Fare piangere è meno difficile. Per questo, teatralmente parlando, preferisco il genere farsesco. Sono sicuro che il dramma della nostra vita, di solito, si nasconde nel convulso di una risata, provocata da un’azione qualsiasi che a noi è parsa comica. Sono convinto che spesso nelle lacrime di una gioia si celino quelle del dolore. Allora la tragedia nasce e la farsa, la bella farsa, si compie“.
Massimo Carpegna