Alcuni eventi attuali – come gli incendi che stanno devastando le foreste dell’Artico e dell’Amazzonia – hanno ulteriormente messo in luce il tremendo impatto che l’uomo può avere sul nostro prezioso, fragile, pianeta.
Tuttavia, un recente studio suggerisce che non si tratti di un fenomeno recente, bensì iniziato in tempi lontani, migliaia di anni fa.
La ricerca è frutto della collaborazione di un team internazionale di scienziati, i cui risultati sono pubblicati su Science.
Un pianeta su misura per l’uomo
L’uomo è una creatura straordinaria, in grado di modificare profondamente l’ambiente che lo circonda al fine di soddisfare i propri bisogni. Purtroppo, ciò non avviene senza conseguenze, e queste sono sotto gli occhi di tutti: inquinamento, riscaldamento globale, sovrasfruttamento delle risorse… sono solo alcuni dei danni prodotti dalle attività umane.
Nel corso degli ultimi secoli, queste hanno portato alla scomparsa di numerose specie, al punto che alcuni scienziati parlano di un vero e proprio fenomeno di estinzione di massa – simile a quello che spazzò via i dinosauri.
Tutto ciò ha spinto una parte della comunità scientifica a definire una nuova epoca geologica: l’Antropocene (dal greco Anthropos, essere umano). Alcuni propongono come data d’inizio il 1945 – anno in cui detonò il primo ordigno nucleare – tuttavia, secondo un recente studio, l’impatto delle attività antropiche avrebbe radici ben più antiche.
La ricerca si colloca all’interno di un progetto denominato ArchaeoGLOBE, al quale hanno aderito centinaia di scienziati. Questo, si pone l’obiettivo di analizzare lo sfruttamento del territorio da parte dell’uomo in un arco di tempo compreso fra 10mila anni fa e il 1850.
I risultati sono sorprendenti e indicano che, già 4mila anni fa, “Le attività di coltivatori, pastori e cacciatori-raccoglitori avevano significativamente modificato il pianeta”, come affermato dalla dott.ssa Andrea Kay – archeologa presso l’Università di Lausanne e tra gli autori della ricerca.
Al tempo delle prime civiltà
Dieci mila anni fa, la maggior parte delle popolazioni umane si procurava il cibo secondo un sistema di caccia e raccolta, ottenendo le risorse direttamente dall’ambiente selvatico.
Per quanto possa sembrare innocuo, questo stile di vita non è a “impatto zero”, infatti si ritiene che i nostri antenati abbiano contribuito all’estinzione di varie specie, incluso il celebre mammut.
Tuttavia, fu con la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento che si osservò una significativa modificazione del territorio ad opera dell’uomo. Queste pratiche – dapprima circoscritte al Medio Oriente – si diffusero in Europa, Asia, America e Nord Africa circa 3mila anni fa.
Ampie porzioni di foresta furono eliminate per fare spazio a pascoli e coltivazioni, compromettendo i fragili ecosistemi locali e causando una riduzione nella biodiversità.
Inoltre, l’impiego di incendi controllati per rimuovere la vegetazione portò al rilascio di grandi quantità di anidride carbonica, con inevitabili ripercussioni sul clima.
Tale fenomeno fu ulteriormente esacerbato dalla diffusione degli animali da pascolo – come le mucche – responsabili della produzione di metano (un gas serra particolarmente potente).
Ovviamente, l’impatto delle antiche popolazioni umane non è paragonabile a quello esercitato dalle moderne società. Tuttavia, il suo studio potrebbe fornirci importanti informazioni per elaborare strategie atte a limitare i danni prodotti dalle nostre attività.
Questa ricerca non sarebbe stata possibile senza il coinvolgimento e la dedizione di ben 250 ricercatori provenienti da tutto il mondo, a riprova di quanto sia fondamentale la collaborazione e lo scambio di idee al di là dei confini nazionali.
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