Il 13 novembre 2014 è uscito nelle sale il film Il mio amico Nanuk, opera che narra le vicende del giovane Luke, cresciuto nella regione artica. L’incontro con un orsetto aiuterà il ragazzo a comprendersi meglio. Le riprese che colgono minuto per minuto lo svolgersi di questa bizzarra amicizia mostrano il percorso di crescita del protagonista.
Tale fiaba di formazione mi ha riportata (probabilmente per l’analogia nel nome e nell’ambiente mostrato) ad un lavoro estremamente diverso, ma allo stesso tempo attuale. Mi riferisco a Nanuk l’eschimese (1922), progetto di Robert J. Flaherty. Il film è considerato il primo documentario della storia del cinema.
Il regista si è approcciato ad una famiglia di inuit (etnia dell’Artico) condividendo con loro gioie e dolori. In questo lungometraggio antropologico è presentata la vita quotidiana di una popolazione totalmente diversa dalla nostra. L’autore si è mosso per un lungo periodo nel Circolo polare artico con temperature bassissime, riprendendo senza tregua usi e costumi di una famiglia natia.
Flaherty è stato capace di montare e rendere poetiche situazioni reali. Passato per varie critiche che lo accusavano di aver snaturato gli indigeni, il regista non ha abbandonato il progetto. Si è recato una seconda volta nella terra dei ghiacci e ha ripreso scene ulteriori, per permettere a chi osserva di entrare in un contatto totale con la pellicola.
Senza Nanuk l’eschimese, che ha sottoposto all’interesse degli spettatori realtà differenti, non avremmo un cinema che s’interessa alle problematiche dell’ecologia e pellicole ambientate in luoghi lontani, come per esempio, Il mio amico Nanuk. La tenacia di Flaherty va sicuramente premiata.