Dalle prime immagini trasmesse nel 1999, le sottili incisioni che solcano i pendii sabbiosi del Pianeta Rosso hanno acceso un dibattito scientifico globale. Queste strutture, spesso a forma di canali sinuosi con piccole cavità terminali, compaiono e scompaiono stagionalmente in regioni ricche di dune. Il loro aspetto ricorda i solchi creati da flussi granulari, con margini netti e depositi a ventaglio. La domanda chiave è stata a lungo: quale processo naturale riesce a scavare tracciati così regolari in un ambiente raro di atmosfera, bassa pressione e temperature estreme?
La pista dell’anidride carbonica: quando il ghiaccio “scava” la sabbia
La soluzione più convincente chiama in causa la sublimazione del ghiaccio secco, cioè il passaggio diretto dell’anidride carbonica dallo stato solido a quello gassoso. Durante l’inverno marziano, strati di CO2 congelata possono depositarsi sulle dune fino a spessori considerevoli. Con l’arrivo della primavera, l’illuminazione solare riscalda la superficie e innesca una conversione rapida in gas. Il flusso di CO2 che si libera dal ghiaccio intrappolato esercita una pressione sufficiente a mobilitare i granuli di sabbia e a far scorrere piccoli blocchi di ghiaccio lungo i versanti, incidendo canali riconoscibili dall’orbita.
Esperimenti in camera marziana: riprodurre il fenomeno sulla Terra
Per testare l’ipotesi, un team internazionale ha replicato le condizioni di Marte in laboratorio con una camera di simulazione. Blocchi di ghiaccio di CO2 sono stati posati su pendii di sabbia a diverse inclinazioni. Sono emersi due comportamenti:
- Pendenze ripide (> 25°): i blocchi scorrono su un cuscino di gas generato dalla sublimazione, lasciando scie relativamente lineari e poco profonde, simili a “binari” levigati.
- Pendenze moderate (≤ 22,5°): i blocchi s’insinuano nel substrato sabbioso; il gas sprigionato “fluidifica” i granuli ed erode in profondità, producendo canali sinuosi con piccole tasche terminali, in ottimo accordo con le forme marziane osservate.
La chiave è il bilancio tra spinta di galleggiamento sul cuscino di gas e resistenza del letto sabbioso: quando la sabbia cede, il blocco affonda parzialmente, il gas si incanala e l’erosione diventa efficiente, scavando tracciati che ricordano impronte “a talpa”.
Perché non è acqua: i limiti dei flussi liquidi in superficie
In un passato remoto, Marte ha ospitato acqua scorrente su larga scala. Nelle condizioni attuali, la bassa pressione atmosferica rende instabile l’acqua liquida esposta, che tende a evaporare o a congelare rapidamente. Le gole moderne si formano stagionalmente in coincidenza con i cicli di accumulo e sublimazione della CO2, non con episodi di fusione superficiale. Il legame temporale con l’inverno e la primavera marziani, unito alla morfologia coerente con i test di laboratorio, sposta l’ago della bilancia a favore del motore criogenico a base di anidride carbonica.
Fisica del processo: dal granulo al canale
La sublimazione genera un flusso di gas che riduce l’attrito tra granuli, facilitando la mobilità del sedimento. A livello microscopico, la pressione del gas crea canali preferenziali sotto il blocco, dove la sabbia si comporta come un fluido granulare: i granuli scivolano e si riorganizzano, mentre il blocco avanza erodendo. La curvatura del tracciato dipende da:
- Inclinazione: determina la velocità di scorrimento e la profondità del solco.
- Granulometria: sabbie fini fluidificano più facilmente, generando canali più sinuosi.
- Illuminazione: modula la velocità di sublimazione e l’intensità del flusso di gas.
Alla base dei canali si formano spesso piccole tasche o ventagli di deposito, dove l’energia del flusso diminuisce e il materiale si accumula.
Un paesaggio dinamico: stagionalità e cicli marziani
Le gole non sono cicatrici immutabili: cambiano nel giro di un anno marziano. Durante l’inverno, l’accumulo di ghiaccio secco predispone i pendii; nella primavera, l’irraggiamento innesca la sublimazione e i blocchi iniziano a scorrere; in estate, i canali risultano più nitidi e le cavità terminali più marcate. Questa ciclicità rende le gole indicatori sensibili del clima vicino alla superficie, utili per calibrare modelli atmosferici e studiare l’interazione tra radiazione solare, sedimenti e volatili.
Conseguenze per l’esplorazione e la geologia comparata
Capire come la CO2 scolpisce le dune aiuta a pianificare missioni e percorsi dei rover, evitando terreni a rischio di collasso granulare. Offre anche spunti per interpretare morfologie simili su corpi freddi del Sistema Solare ricchi di volatili. La geologia comparata suggerisce analogie operative sulla Terra: sebbene non abbiamo coltri stagionali di CO2, fenomeni di fluidizzazione gas–granuli avvengono in ambito industriale e vulcanico, fornendo un laboratorio naturale per comprendere meglio l’erosione a bassa pressione.
Prossimi passi: esperimenti, modelli e osservazioni
Le prossime campagne punteranno a:
- Blocchi più grandi e sabbie diverse: per mappare la transizione tra scorrimento su cuscino di gas e penetrazione erosiva.
- Modelli numerici accoppiati: che uniscano termica, sublimazione e dinamica dei granuli, così da prevedere forme e volumi rimossi.
- Monitoraggi stagionali ad alta risoluzione: con immagini ripetute sugli stessi versanti per quantificare i tassi di cambiamento e l’influenza dell’esposizione solare.
Unendo laboratorio, simulazione e telerilevamento, il quadro processuale potrà essere raffinato fino a collegare le micro–interazioni tra granuli e gas ai disegni macroscopici che leggiamo sui pendii marziani.












