Ogni anno ci sono circa 100.000 decessi causati da un morso di serpente velenoso. Proprio per questo, alcuni studiosi dell’Università di Bristol in collaborazione con team di studiosi provenienti dal Belgio, dalla Francia e dal Portogallo, hanno creato un nuovo tipo di antiveleno in grado di neutralizzare ed eliminare le tossine velenose dal flusso sanguigno in modo più efficace rispetto agli antidoti disponibili oggi.
I morsi di serpente, infatti, iniettano tossine velenose direttamente nel flusso sanguigno che rapidamente attaccano il sistema circolatorio. Nelle regioni tropicali causano circa 100.000 morti all’anno in media e provocano gravi stati di disabilità in caso di sopravvivenza in circa 400.000 soggetti ogni anno. Spesso i veleni lasciano cicatrici e deturpazioni, che, nelle parti del mondo meno sviluppate contribuiscono ad una emarginazione sociale.
L’unico trattamento utilizzato è l’antidoto inventato da Albert Calmette nel 1896, realizzato basandosi su anticorpi raccolti da animali come cavalli e pecore che divenuti immuni alle tossine contenute nel veleno dei serpenti. Tale antidoto, non è efficace al 100%, e per garantire maggiori probabilità di sopravvivenza servono più fiale, che oltre ad essere molto costose nelle regioni povere, causano effetti collaterali non indifferenti.
Maggiori dettagli sul nuovo antidoto contro i morsi dei serpenti
Il team di ricerca condotto dalla professoressa Christiane Berger-Schaffitzel, invece utilizzerà l’innovativa piattaforma denominata ADDomer © per realizzare una terapia con particelle simili al virus (VLP) di antiveleno. Per far ciò, verrà sequenziato il complesso patrimonio genetico del veleno dei serpenti velenosi maggiormenti diffusi, come il mamba verde e diverse tipologie di vipera. Il primo vantaggio di questa innovativa terapia sarà la possibilità di conservazione a temperatura ambiente: l’antidoto utilizzato nelle regioni tropicali attualmente, invece, deve essere refrigerato. In questo modo può essere utilizzato con più facilità anche nelle zone calde, come quelle dell’Africa sub-sahariana.
Le prime ricerche sono già iniziate, ma tutti i volontari erano donne bianche adulte, pertanto occorrerà scegliere una porzione di popolazione più ampia e diversificata affinchè si possano ottenere risultati più veritieri ed analizzare le risposte immunitarie dei diversi soggetti.