Grazie alla galoppata trionfante de La grande bellezza di Paolo Sorrentino alla cerimonia di premiazione degli Oscar di ieri notte, l’arte cinematografica italiana ottiene un po’ di lustro a 15 anni dall’ultima volta con La vita è bella di Roberto Benigni. Premio meritato o non meritato, film capolavoro o polpettone esagerato e ridondante, tanto si è detto e si sta dicendo in questo periodo sul film il cui obiettivo è restituire il ritratto (di ispirazione felliniana) di un’Italia tanto bella quanto tormentata. Che poi il metodo stilistico col quale perseguire tale obiettivo possa essere apprezzato, discusso o criticato questo fa parte del gioco.
Da parte mia, entusiasta delle soddisfazioni patriottiche che scaturiscono da un tale risultato, concordo oltre a questo con le voci favorevoli sul film, le stesse voci che lo promuovono semplicemente come il racconto poetico della vita di un uomo che ha tutto, ma non ha niente. Un uomo che, come tutti presto o tardi, a un certo punto prende coscienza di ciò che effettivamente conta nella propria esistenza. Quella scoperta disarmante che ti consente finalmente di colmare tutti i vuoti e di vivere.
Vorrei approfittare di questo evento per sottoporre all’attenzione di tutti il film di Paolo Sorrentino che più mi ha incantato, e che costituisce oltretutto una delle prime collaborazioni tra lui e il grande attore Tony Servillo.
Il film in questione è Le conseguenze dell’amore che, uscito nelle sale nel 2004, ha fatto incetta di premi qui in patria tanto da essere poi riproposto nelle sale. Ma al di là dei riconoscimenti di pubblico e critica, questa pellicola rappresenta per quanto mi riguarda un gioiello della narrativa cinematografica italiana.
Titta Di Girolamo (Servillo) è un uomo distinto, di poche parole, confinato da otto anni in un Hotel svizzero, che non tollera la curiosità altrui, specie quando questa è mirata ad ottenere informazioni sul suo passato. Il mistero avvolge questo strano personaggio che sembra non provare alcuna emozione e che vediamo passeggiare, giorno e notte, con lentezza nei corridoi dell’albergo e per le strade di una città grigia e fredda. Attraverso le sue quotidiane abitudini e i distaccati rapporti che egli intrattiene con personaggi che nell’hotel alloggiano, lavorano o semplicemente transitano, si comprendono la vera personalità del protagonista e i reali motivi del suo prolungato soggiorno in terra straniera.
Questo è il soggetto di un’opera le cui sequenze sono pervase da una vena poetica e metaforica che lasciano intuire tormenti acutamente sottolineati da laconici interventi fuori campo della voce del protagonista, il quale ci lascia delle briciole da seguire nel tentativo di comprendere la sua condizione esistenziale. Una condizione che sembra ormai definitiva, per una persona che ha sbagliato tutto nella vita e la cui sola via di espiazione è assolvere a compiti assegnatagli dai suoi “carcerieri” a distanza.
Sorrentino impiega la giusta dose di mistero per avvolgere le vicissitudini di un uomo la cui occupazione si scopre essere quello di un “impiegato” della mafia. Il racconto di una vita noiosa (come la verità, così definita dallo stesso Di Girolamo) trascorsa lontano da casa, a riciclare denaro per conto di Cosa Nostra. Un pegno che il protagonista è costretto a dover pagare per errori commessi in passato, e che lo hanno reso molto più cinico e introverso di quanto non lo sia mai stato.
Ci viene presentato il ritratto di una persona che sembra non avere nessuna scelta, nessun sentimento, nessuno scopo per cui valga la pena ritornare a vivere. Una persona che esordisce con pacata disperazione affermando: “non sono mai stato amato io”. Ma è proprio questo peso, questa condanna da subire, che porta il commercialista della mafia ad instaurare un rapporto pudico e velleitario con un’impiegata dell’hotel, nell’avvilita speranza di essere compreso, amato, perdonato. Una speranza coltivata con ermetica riservatezza di poter in qualche modo rimediare alla propria condizione e addirittura migliorare quella altrui. Un speranza perciò che lo espone proprio al rischio di incorrere nelle conseguenze suggerite dal titolo.
Il percorso interiore del protagonista, dalla rassegnazione sino all’auto-convinzione di essere stato amato da qualcuno, passando dall’ambizione di voler ancora amare, viene espletato all’interno di sequenze a dir poco ipnotiche che, accompagnate da sonorità elettroniche e satiricamente pop, si evolvono partendo dalla glacialità apparente dell’animo umano per poi giungere alla reale volontà di scaldare il cuore.
Chiudo questa mia personale e appassionata meditazione con una frase tratta dal film che pronunciata dallo stesso protagonista ne esprime i commoventi auspici confermandolo dopotutto ancora come un essere umano con un’anima.
“Una cosa sola è certa, io lo so. Ogni tanto in cima a un palo della luce, in mezzo a una distesa di neve, contro un vento gelido e tagliente, Nino Giuffré si ferma, la malinconia lo aggredisce e allora si mette a pensare. E pensa che io, Titta Di Girolamo, sono il suo migliore amico”.