Nymphomaniac

E’ sempre difficile tradurre in immagini e dialoghi una storia. Scegliere cosa mostrare allo spettatore, quali emozioni innescare nell’animo, quali sensazioni e ricordi indurre. Ancor più difficoltoso è portare sullo schermo una storia soggetta a facili contestazioni legate alla tematica affrontata. Il sesso e la dipendenza da esso è già di per sé un argomento scottante per il cinema ma dipende sempre da come viene rappresentato.

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Un maestro dell’anticonformismo come Lars von Trier non poteva che sviluppare questo tema nella maniera più esplicita e al tempo stesso raffinata possibile. Peccato per le molte, forse troppe, citazioni filosofiche con cui il film cerca di elevarsi ma che rendono tutto il contenuto un po’ troppo pretenzioso nel voler metaforicamente accostare le vicende della protagonista a testi letterari e racconti religiosi.

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Il film, scandito in vari capitoli, narra la vita di Joe (Charlotte Gainsbourg) dall’infanzia sino all’età di 50 anni. Una donna che si definisce ninfomane nel suo bisogno maniacale di ricercare uomini cui concedersi in situazioni volutamente sempre più estreme.

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Joe viene trovata ferita in un vicolo da un passante, Seligman, il quale la soccorre portandola a casa. I due trascorrono tutta la notte a parlare, tra la curiosità dell’uomo e la necessità che la donna avverte di raccontarsi.

 

La pellicola è stata girata come un unico film ma è divisa in due volumi. Freddo e distaccato ma nel contempo caldo e maniacalmente passionale, il film affronta la dipendenza dal sesso di una donna consapevole della propria malattia e delle colpe morali di cui si è macchiata ma che non cerca alcuna forma di redenzione, rifiutandosi di considerarsi come un difetto della società.

Il danese Lars von Trier, uno dei promotori del movimento Dogma95, è noto per il suo stile innovativo, asciutto e di forte impatto. Una storia del genere nelle sue mani è diventata un vero “caso” ancor prima di essere proiettata nelle sale.

I capitoli del film riferiti ai vari momenti della vita che Joe affronta, vengono arricchiti da una lunga schiera di attori di prim’ordine che gravitano attorno alla protagonista. Un padre affettuoso interpretato da Christian Slater; Jeròme, Shia LaBeouf, il primo amante di Joe, che diviene poi il suo più grande amore nonché distruttore; K, Jamie Bell (Billy Elliot per intenderci) il fustigatore al quale molte donne si rivolgono come se fossero nella sala d’attesa di un medico; Uma Thurman, una delle tante mogli a cui Joe ruba il marito e l’unica con cui Joe è costretta a fare i conti; Willem Dafoe, il ricettatore datore di lavoro di Joe, dopo che lei perde la possibilità di trovare un qualunque lavoro normale, per colpa della sua reputazione; il Seligman di Stellan Skarsgard, soccorritore e presto confidente di Joe, che ascolta incuriosito la storia della donna tentando in tutti i modi di giustificarla.

Durante tutto il film ci si trova paradossalmente spesso in accordo con Seligman nel cercare di giustificare la protagonista la quale però rimarca con masochistica rabbia la propria condotta, ritenendola dannosa per sé e per le persone che l’hanno accompagnata durante il suo percorso fino a quella notte. La donna è spinta dalla sua malattia a compiere atti sulla sua persona e sugli altri che ne evidenziano l’impotenza davanti alla voglia irrefrenabile di fare sesso e di procurarsi dolore sia fisico che emotivo, al solo scopo di provare eccitazione, di raggiungere l’estasi.

Come già detto è evidente la mano del regista, mossa da una mente nota per essere controversa e contraria a un determinato modo di fare cinema. Ciò nonostante il suo non è più un cinema fatto di sole parole e persone, in assenza di ambientazioni e musiche, superati gli apprezzabili esperimenti stile Dogville infatti qui troviamo un film in cui le parole si traducono in immagini lasciando spazio nullo all’immaginazione. Proprio all’immaginazione viene dato un ruolo marginale, in un film in cui tutto viene mostrato e in cui tutto (parole del regista) accade davvero. Sequenze di sesso, violenza, amore sono mostrate quasi con freddezza medica nel rappresentare le anatomie dei corpi e dei sessi.

Ma in un film che è esso stesso la metafora dell’esplicito forse non è necessario cercare in ogni situazione la corrispondente similitudine nella letteratura, nelle figure religiose, nelle teorie scientifiche e matematiche nel tentativo forse di rendere il tutto molto più profondo di quanto già non sia.

Lars von Trier sorprende sempre e non è mai banale, ma riguardo il tema trattato la preferenza andrebbe su pellicole come Shame di Steve McQueen.