Vergine Giurata. Racconto di un’identità imprigionata

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Vergine Giurata è il primo lungometraggio della regista Laura Bispuri, reduce dalla vittoria del premio Nora Ephron all’ultimo Tribeca Film Festival.

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Vergine giurata (in albanese Virgjinat e bitume), è una licenza poetica per definire quelle donne, rigorosamente vergini, che hanno smesso i panni femminili per approcciarsi a un’identità sessuale opposta, maschile, quell’identità dominante che nell’assetto sociale impartisce ordini, sceglie, decide. È quello che avveniva molto spesso in alcuni Paesi come il Kosovo e le zone montuose dell’Albania settentrionale, è quello che accade eccezionalmente anche oggi a molte donne che si privano del proprio essere per non soccombere ad una società maschilista e patriarcale.

A narrare di questo fenomeno, ai più sconosciuto, è la regista emergente Laura Bispuri nel film Vergine Giurata ispirato all’omonimo romanzo del 2007 della scrittrice albanese Dones Elvira. La storia tratta di Hana (interpretata dalla talentuosa Alba Rohrwacher), una ragazza che rimasta orfana viene affidata a una famiglia del posto già genitori di una figlia, Lila. Sentendo il peso della sua posizione di donna e sentendosi in obbligo di sdebitarsi in qualche modo con la famiglia adottiva, decide di diventare vergine giurata e trascorrere la sua esistenza nei panni di Mark, il suo alter ego maschile. Il cambiamento è radicale. Gli atteggiamenti diventano ruvidi, conformi a quelli degli uomini che vivono intorno a lei, la libertà si trasforma in negazione e solitudine. Tutto cambia quando Mark decide di raggiungere Hana, scappata in Italia anni prima per fuggire da un matrimonio combinato. Qui Mark si trova a fare i conti con la sua identità, intraprendendo un viaggio attraverso il proprio limbo interiore che non le permette di autodefinirsi, come un bambino alla scoperta della propria essenza e carnalità. Carnalità è una delle parole chiave che definisce le scelte stilistiche della regista che segue i suoi personaggi, in particolare Hana/Mark, da una distanza ravvicinata. La macchina da presa è attaccata al personaggio, lo investiga, segue ogni suo movimento, ogni suo sguardo verso il mondo circostante. Ispeziona il corpo in maniera delicata, naturale, accompagnandoci nel viaggio di riconciliazione di Hana con il suo corpo e la sua sessualità.

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Quello che rimane è il ritratto sensibile di un essere umano alla ricerca della serenità, al di là di ogni genere e identità.