Daniele Nardi:
“Non conta come si muore, ma come si è vissuto” avverte Antonio Pennacchi in un articolo omaggio a Daniele Nardi, giovane alpinista deceduto il 25 febbraio scorso mentre saliva sul Nanga Parbat, ma soprattutto morto mentre viveva la propria vita. A molti può sembrare strano, ma è così. La prima e più importante cosa da fare con la nostra vita, è viverla. Dopo la tragica scomparsa dello scalatore italiano, molti giornali, televisioni e social gli hanno aperto gli idranti della contestazione in faccia: attacchi, offese, improperi, derisioni, morali filosofiche ecc.. Tutta questa insalata d’insulti è nata e cresciuta anche perché Nardi aveva parecchio da perdere: 42 anni, una moglie e una figlia piccola. Ma Daniele ha semplicemente cavalcato l’onda del suo essere vivo, ha tentato quello che nessun altro era mai riuscito a fare, cioè arrivare in cima al Nanga Parbat dal versante più ostico e pericoloso. La sua passione prevedeva tutto questo, l’azzardo e la rovina. Voleva superare gli altri, sè stesso ed andare oltre quel fottutissimo record.
Lorenzo Orsetti:
Un altro giovane italiano che se n’è andato di recente, in maniera e circostanze completamente diverse rispetto a quelle di Nardi, è Lorenzo Orsetti. Il ragazzo è morto il 18 marzo di quest’anno, mentre si trovava in battaglia contro l’Isis, ad appena 33 anni. Ha deciso di mollare la sua vita italiana, il suo lavoro ed è andato a combattere l’Isis insieme ai curdi. Anche in questa occasione, l’informazione e i social si sono superficialmente schierati contro di lui e la sua scelta, domandadosi il perché di una presa di posizione così folle e assurda. Non è stato capito che Lorenzo, oltre all’Isis, ha combattuto per un’idea e contro il piattume esistenziale. Se non è comprensibile lottare per questo, quali sono le cose degne per cui schierarsi sul campo di battaglia? Anche lui voleva andare oltre. Oltre una vita grama, senza né capo né coda.
Nei reportage che riempiono i nostri schermi, appaiono psicologi, giornalisti, sociologhi e sé dicenti dottori che, oltre a criticare i Nardi e gli Orsetti, lanciano continuamente allarmi a genitori e scuole per avvertirli di molti comportamenti alla deriva di tantissimi giovani, che li portano a perdere la vita, o comunque ad andarci vicino. Se i ragazzi nel 2019 provano sport estremi (bunjee jumping), gesti poco equilibrati (fire challenge) e condotte perverse (purple drunk), è perché vivono nel vuoto. Un vuoto che vogliono però riempire. C’è questa voragine nelle loro vite e nelle loro coscienze che dovrà pur essere tappata e questi atteggiamenti al limite rappresentano proprio la risposta a forma di tappo di sughero. La crepa dentro cui si sta cadendo ha diverse origini: dalla morte delle occasioni di lavoro, all’affermazione del consumismo, che tutte quante insieme si danno appuntamento sotto un unico paradigma: NOIA. I giovani vivono con l’acido dentro, uno stato d’animo che li divora, perché sentono che valgono molto e vogliono di più, ma non hanno abbastanza. Si annoiano, si rompono gli zebedei di tutto e di tutti. La vita diventa di conseguenza una palla pazzesca, un gioco barboso quasi insopportabile. Se però questa esistenza è un giochino così noioso, allora forse vale davvero la pena di azzardare con il rischio di smarrirla. Tanto è un solo un gioco, palloso oltretutto.
Questi giovani uomini non stanno forse reagendo contro il 2019, che per colpa del capitalismo sfrenato ha smarrito tutti i valori? Meglio reagire e continuare a cercare la strada di vita, in qualsiasi modo, piuttosto che rimanere passivi e fermi ad aspettare quell’autobus che non passerà mai.
Riccardo Chiossi