Tra dubbi esistenziali e problemi sessuali, quattro no global per caso e una coppia in crisi si ritrovano a Berlino in occasione di un G8 minacciato da un complotto mondiale.
Fra The Truman Show, Il grande freddo e un film di David Lynch, l’esilarante romanzo del giovane e geniale maestro belga dello sberleffo, contro ogni forma di facile manipolazione.
Fred soffre di un’atarassia cronica che gli fa sentire le mosche nel cervello. Pierre è una creatura clonata che soffre di assurde allergie e ha una bocca sulla pancia. Paul è paranoico e violento, oltre a lamentare un’infezione urinaria. Kristine è malata di intellettualismo. Katerine non ha le mestruazioni da tempo e suo marito Fabio soffre di eiaculazione precoce. Questa assortita girandola di personaggi si troverà riunita in quel di Berlino. Fred i suoi compagni per una temeraria e velleitaria partecipazione alla manifestazione contro il G8, Katerine e il marito per un soggiorno in una clinica specializzata, nel tentativo di risolvere il loro “problemino”. Il viaggio in Germania cambierà la vita di ciascuno di loro: chi troverà l’amore, chi l’identità, chi l’umiliazione, chi la pace… qualcuno addirittura la morte. Capitoli brevi e incisivi, un ritmo incalzante e una feroce ironia al servizio di una satira sociale che colpisce altermondialismo e cliniche del sesso, in una cinica ma divertita denuncia di qualsiasi forma di illusione, sottomissione e manipolazione.
Thomas Gunzig è nato a Bruxelles nel 1970. Professore di Letteratura francese nei licei artistici di La Cambre e Saint Luc, collabora regolarmente con il giornale Le Soir e con programmi radiofonici e televisivi di grande successo. Autore di 4 romanzi e di 12 raccolte di racconti acclamati da pubblico e critica, con Morte di un perfetto bilingue, suo primo romanzo uscito nel 2012 per Meridiano Zero, ha vinto il Prix Club Med e il Prix Rossel, con la raccolta di racconti Lo zoo più piccolo del mondo (Newton Compton 2005) il Prix des Editeurs.
Traduzione dal francese: Marco Rinaldi
Titolo originale: Kuru (Au Diable Vauvert 2005)
Già: La sindrome del pescecane (Newton Compton, collana Vertigo Blue, 2008)
Pagine 256
Formato 15×20
Euro 14
Un estratto – Fly tox
Da quando aveva diciassette anni, Fred aveva delle mosche nella testa. Volavano e si posavano un po’ ovunque, certe volte così numerose che al posto dei lobi temporali gli sembrava di avere uno spremiagrumi in funzione. Quando erano solo una o due erano più discrete, e il loro ronzio era fastidioso come il gracchiare di una radio mal sintonizzata ma con il volume al minimo. Quando, poco dopo la morte di sua madre, erano arrivati i primi insetti, non aveva voluto parlarne con nessuno. Non era mica matto, sapeva che suo padre l’avrebbe spedito a curarsi, che avrebbe passato lunghe ore con dei medici che l’avrebbero ascoltato annuendo e che gli avrebbero fatto prendere degli ansiolitici contrabbandandoli per vitamina C e che, tra sedute di terapia di gruppo e degenze in clinica, gli avrebbero a poco a poco svuotato il cervello come un melone da mangiare al cucchiaio. Insomma, per Fred quelle mosche rappresentavano “il suo problemino di cui non avrebbe mai parlato e col quale avrebbe tranquillamente potuto convivere”. Non era poi così grave, sapeva che altre persone, spesso gente importante, tra l’altro, avevano problemi molto più gravi del suo. Sapeva che Nixon, durante tutto il suo mandato presidenziale, aveva parlato con un dio venuto da Mercurio, sapeva che Hector Berlioz aveva coltivato a lungo una morbosa passione per la materia fecale e sapeva, o comunque aveva sentito dire, che il papa stesso pensava di essere l’incarnazione di san Giovanni, l’autore dell’Apocalisse. Inoltre, col tempo, aveva capito cos’è che le faceva moltiplicare, quelle mosche. Quando era in casa, tranquillo, a fumare gli spinelli, a parlare per ore di Gilles Deleuze al telefono con i suoi amici, oppure ad ascoltare musica o a guardare la televisione, quelle se ne stavano tranquille, come se fosse inverno e il freddo le bloccasse. Invece quando per una qualche ragione, per esempio, discuteva col padre che gli rimproverava di non cercarsi un lavoro, di dover ancora dipendere, alla sua età, da un versamento mensile che non aveva niente a che vedere con un salario, di non provare neanche a sforzarsi, e lui doveva star lì in quel brutto salotto demodé a sentire quel cretino di destra che gli buttava addosso tutta la sua squallida filosofia da imprenditore anni Ottanta, le mosche uscivano dal loro buco, a sciami nervosi e chiassosi, si appiccicavano dovunque, deponevano le uova e l’obbligavano, una volta tornato a casa, a tenere la testa sotto un rubinetto di acqua gelata tanto da averne dolore.