Rapporto fra vizio parziale di mente e premeditazione

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, tramite la sentenza n. 9163 emessa in data 8 marzo 2005, hanno stabilito che “ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente anche i disturbi della personalità, seppur non sempre inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica fattispecie criminosa, per effetto del quale il fatto-reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale”.

Fermo restando quanto stabilito dalla suddetta sentenza, possiamo soffermarci sul rapporto fra vizio parziale di mente di cui all’articolo 89 c.p. e l’aggravante della premeditazione prevista dall’articolo 577 n. 3 del Codice Penale.
Prima di procedere ritengo opportuno precisare che il riscontro in sede di perizia psichiatrica di un disturbo della personalità non implica necessariamente la concessione, in ambito dibattimentale, dell’attenuante rappresentata dal vizio parziale di mente. Se infatti la patologia diagnosticata, pur rientrando nella categoria suddetta, risultasse di intensità tale da escludere totalmente la capacità di intendere e di volere, il soggetto non sarebbe imputabile e conseguentemente non si potrebbe contestargli l’aggravante in questione. È necessario quindi evitare ragionamenti assolutistici per non fuggire dal relativismo critico richiesto dalla trattazione di tematiche che, come quella affrontata in questo paragrafo, si basano sulla sinergica relazione fra dottrina giuridica e scienza medica.
Se fino alla metà del secolo scorso la giurisprudenza era sostanzialmente orientata a sostenere l’incompatibilità delle due norme in esame, in quanto si riteneva che, per la configurabilità della premeditazione, occorresse dimostrare l’esistenza di un dolo più intenso di quello riscontrabile nel soggetto che – per infermità organiche – versasse in tale stato mentale da scemare grandemente la propria capacità di intendere e di volere, grazie alla sentenza emessa in data 23 febbraio 1957 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno impresso una svolta all’interpretazione del rapporto giuridico oggetto della nostra riflessione.

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Rileggendo, infatti, la motivazione offerta a sostegno del nuovo indirizzo fissato dalla dottrina giuridica, possiamo apprezzare come la Suprema Corte (Cass. Sez. I, sentenza n. 1484/1998) abbia precisato che “relativamente al motivo di ricorso concernente la compatibilità della parziale incapacità di intendere e di volere con la circostanza aggravante della premeditazione, questa Corte, risolvendo un annoso contrasto giurisprudenziale risalente al codice Zanardelli, da tempo ne ha affermato la conciliabilità, in quanto il vigente sistema giuridico penale mantiene distinti i due concetti […] rendendoli operanti su piani diversi, cosicché in sede di giudizio si integrino senza annullarsi per puro astrattismo dialettico”, fermo restando che un’eventuale incongruenza possa sussistere qualora la premeditazione sia correlata alla causa dell’infermità riconosciuta al reo in sede peritale.

Le due fattispecie penali operano infatti su due livelli distinti: la seminfermità è correlata all’imputabilità, la cui sussistenza è conditio sine qua non per la comminazione della pena; la fattispecie prevista dall’articolo 577 n. 3 c.p. riguarda invece l’elemento psicologico del reato, in tal caso il dolo, disciplinato dall’art.133 del Codice Penale.

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Ciononostante è possibile apprezzare l’allineamento della giurisprudenza al mutato orientamento dottrinale anche precedentemente al 1998. Si pensi, per esempio, a quanto affermato dalla sentenza n. 11599 emessa dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione in data 25 giugno 1982, con la quale si è ribadito che “la circostanza aggravante della premeditazione è incompatibile con la diminuente del vizio parziale di mente qualora risulti un effetto della malattia costituente l’essenza dell’infermità, alterando quindi le capacità cognitive e volitive del soggetto”.

In merito ai disturbi della personalità più frequentemente riscontrabili, la sentenza n. 10811/1984 emessa dalla medesima sezione della Suprema Corte ha rimarcato che “la premeditazione e il vizio parziale di mente non sono in linea di principio incompatibili potendo quindi coesistere, eccetto il caso in cui l’aggravante in esame sia eziologicamente correlata all’ossessivo modus cogitandi dell’agente […]”. Pertanto l’eventuale anomalia della personalità diagnosticata al soggetto può conciliarsi con quanto previsto dall’articolo 577 n. 3 c.p., qualora ciò non sia correlato all’essenza stessa dell’infermità psichica (Cass. Sez. I, sentenza n. 3752/1985).

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Tuttavia è necessario precisare che la premeditazione rappresenta una circostanza aggravante specifica di alcuni delitti contro la persona, collocati nel Titolo XII del Libro II c.p., come l’omicidio e le lesioni personali, disciplinati rispettivamente dagli articoli 575 e 582 del Codice Penale.

Un analogo ragionamento non può tuttavia ritenersi valido qualora il giudice ritenga, ad esempio, l’imputato colpevole del delitto di maltrattamenti di cui all’articolo 572 c.p. che, al contrario delle norme precedentemente citate, rientra fra le fattispecie criminose del Titolo XI (reati contro la famiglia): la combinazione dei due dispositivi costituirebbe infatti una vera e propria aberrazione giurisprudenziale. Al riguardo la Suprema Corte, confermando il superamento della concezione tradizionale secondo cui sarebbe stato premeditato il delitto commesso frigido pacatoque animo, ha precisato che gli elementi tipici della premeditazione sono rappresentati da un apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l’opportunità del recesso, nonché una ferma risoluzione perdurante nel soggetto attivo tale da indurlo, senza ripensamento alcuno, alla commissione del delitto (Cass., S.U., sentenza n. 337/200).