Ruggero Leoncavallo e il delitto di Montalto Uffugo fonte ispiratrice dell’opera “Pagliacci”

L'opera "PAGLIACCI" tratta da un avvenimento tragico della cronaca italiana

Il 9 agosto del 1919 moriva a Montecatini Terme Ruggero Leoncavallo, compositore tra i più importanti di quel movimento artistico che prese il nome di “verismo”. La sua opera più rappresentativa è senz’altro “I pagliacci” che, appunto, appartiene al Verismo italiano, quello di Giovanni Verga. Per sommi capi, il Verismo si diffuse durante il periodo della Seconda Guerra d’indipendenza e si affermerà anche nei primi anni del ‘900.

Cosa accadde in questo periodo così importante per l’Unità d’Italia?

In seguito agli accordi con la Francia, Cavour provocò in ogni modo l’Austria, ma ad avere effetto sull’Imperatore Francesco Ferdinando fu il continuo spostamento delle truppe piemontesi a ridosso dei confini austriaci.

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Il 23 Aprile 1859, l’imperatore austriaco inviò un ultimatum a Re Vittorio Emanuele II che, provocatoriamente, fece scadere i termini per l’accettazione, così da spingere gli Austriaci ad invadere il territorio piemontese, attivando il Trattato di Plombières. L’esercito Piemontese era già pronto alla controffensiva. Furono richiamati nel Regno di Sardegna numerosissimi volontari, che vennero a tutti gli effetti annessi all’esercito di Vittorio Emanuele.

I volontari, che si rivelarono molto importanti per la riuscita della guerra, furono i “Cacciatori delle Alpi”, guidati dal comandante Giuseppe Garibaldi e le battaglie più importanti furono quelle di Magenta, di Solferino e San Martino: l’ultimo sanguinoso scontro degli eserciti rivali. Le truppe austriache abbandonarono il Piemonte e si ritirarono a ridosso dell’Adige. La sempre più crescente attività delle truppe Prussiane sui confini del Reno e la possibilità che il conflitto si allargasse ulteriormente, unito alle ingenti perdite di uomini e mezzi, condusse Napoleone III alla decisione di richiedere la cessazione delle ostilità. L’8 luglio 1859, e a Villafranca, furono stese le prime contrattazioni finalizzate all’armistizio e Cavour dovette rinunciare al suo piano iniziale; infatti, il trattato stipulò che solo i territori della Lombardia, ad accezione della fortezza di Mantova, sarebbero passati al Regno di Sardegna e queste condizioni portarono alle dimissioni di Cavour.

Armistizio di Villafranca

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L’11 luglio 1859 Vittorio Emanuele II firmò l’Armistizio di Villafranca, ratificato successivamente con la Pace di Zurigo nel novembre 1859. Nonostante l’ingente spargimento di sangue e i molteplici atti d’eroismo dei soldati e dei volontari, il sogno di un’Italia unita non era stato raggiunto e da questa delusione nacque quella sorta di pessimismo che permeò le opere veriste.

La popolazione, ma anche la nobiltà e la ricca borghesia, non avevano più fiducia che l’Italia riuscisse ad unificarsi e un certo “campanilismo” iniziava ad affacciarsi, nel caso che, invece, il re piemontese fosse riuscito nel proprio intento. Ricordate la frase di Don Fabrizio ne Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa? “Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene.

Da dove deriva il termine “Verismo”?

Semplicemente dalla parola “vero”. Secondo gli scrittori veristi, l’autore ha il diritto di riprodurre la realtà cosi com’è, senza giudizi o commenti di natura personale. Altre caratteristiche sono il “Regionalismo”: gli scrittori amano per lo più trattare argomenti della propria regione, della società nella quale vivono, parlando molto spesso del lato più negativo; il già citato “Pessimismo”: nelle opere veriste, traspare spessissimo uno sconforto, si pensa e si crede che l’unita nazionale tanto agognata, non sarà raggiunta e, nel caso, non cambierà le sorti delle classi sociali più deboli. Abbiamo poi l’”Impersonalità”: gli scrittori non vogliono assolutamente inserire nelle loro opere commenti personali e, infine, il “Linguaggio”: gli autori adottano la lingua nazionale per quanto riguarda la forma, in alcuni termini, però imitano il linguaggio della gente più comune. Ma veniamo ai Pagliacci.

L’opera nasce da un fatto di cronaca avvenuto a Montalto Uffugo

La fonte ispiratrice de “I Pagliacci” ci porta al Sud, e precisamente in Calabria. Sì, perchè l’opera nasce da un fatto di cronaca avvenuto a Montalto Uffugo, una cittadina in provincia di Cosenza. La vicenda s’intreccia con un segmento della stessa biografia dell’Autore, allora bambino, e fu di tale impatto da stimolare, diversi anni dopo, il suo immaginario d’artista.

Biografia di Ruggero Leoncavallo

Nativo di Napoli, Leoncavallo si era trasferito con la famiglia a Montalto Uffugo, dove suo padre fu chiamato a ricoprire l’ufficio di Pretore. Le fonti riportano che, a quel tempo e nel borgo calabrese, ci fu un fatto di sangue di matrice passionale. La vicenda avvenne il 5 marzo 1865, come risulta dalle carte giudiziarie che parlano di “atti a carico del detenuto Luigi D’Alessandro fu Domenico di anni 25 (…) e del detenuto Giovanni D’Alessandro fu Domenico di anni 31”, entrambi “calzolai in Montalto. Imputati di assassinio premeditato con agguato, commesso con armi insidiose la sera del 5 marzo 1865 in Montalto, in persona di Gaetano Scavello.”

Opera “Pagliacci”

Nell’opera troviamo un omicidio, quello compiuto dall’attore girovago Canio ai danni della moglie Nedda e del suo amante Silvio, un contadino del luogo, che interverrà cercando di difendere la donna. L’omicidio avviene sulla scena di uno spettacolo che il caso volle tratti proprio di una vicenda di tradimento. Finzione e realtà si confondono in modo drammatico: gli altri attori della compagnia, attoniti per l’orrore, non intervengono a fermare la furia omicida di Canio e anche il pubblico comprende troppo tardi che ciò che sta vedendo non è più finzione e cerca invano di fermare Canio.

Copertina della prima edizione di “Pagliacci”, edita da E. Sonzogno, Milano, 1892 * Artista: Sconosciuto * Fonte: [http: //www.sonzogno.it/compositori_en/template3.asp?id=1 Casa Sonzogno] {{PD-US}
La versione reale della vicenda, diversa nei fatti eppur analoga nel far perno intorno al sentimento di una incontrollabile gelosia, riguardò abbastanza da vicino la famiglia Leoncavallo: la vittima, Gaetano Scavello, era stato infatti assunto da Vincenzo Leoncavallo (padre del musicista) come domestico, affinché badasse a Ruggero, che all’epoca aveva appena otto anni. Scavello si era innamorato di una ragazza del paese, di cui era a sua volta innamorato anche il calzolaio Luigi D’Alessandro. Un giorno di marzo, il domestico di casa Leoncavallo, passeggiando per un sentiero della campagna di Montalto vicino alla fontana detta “del somaro”, incontrò la ragazza insieme al garzone della famiglia D’Alessandro, Pasquale Esposito, e tentò di portarla via con lui; la ragazza rifiutò di seguirlo e proseguì col garzone, finché Gaetano non li vide entrare in un casolare. Scavello si nascose e attese che uscissero. Fermò Esposito, chiedendogli spiegazioni, ma il suo rifiuto di parlare fece infuriare il ragazzo al punto da spingerlo a frustare l’altro alle gambe con un ramo di gelso. Il fatto fu riferito allo stesso Luigi D’Alessandro e a suo fratello Giovanni e i due, la sera successiva, minacciarono più volte Scavello, prima di accoltellarlo a morte in un violento scontro all’uscita da uno spettacolo teatrale.

Come riferì al giudice un testimone, tale Pasquale Lucchetta che usciva dalla scala interna del teatro con una lanterna in mano, la scena raccapricciante gli si impose alla vista: Luigi D’Alessandro che scagliava un colpo di coltello inglese da calzolaio alla gola di Gaetano Scavello, mentre il fratello Giovanni lo colpiva all’addome. L’istruttoria fu avviata proprio da Vincenzo Leoncavallo, ma il resto del processo fu seguito dall’avvocato Francesco Marigliano, terminando con la condanna a venti anni di reclusione per Luigi D’Alessandro e ai lavori forzati a vita per suo fratello Giovanni.

L’origine dell’opera “I Pagliacci” è testimoniata in una autobiografia di Leoncavallo rimasta incompleta e affidata ad un dattiloscritto oggi conservato nel Fondo Leoncavallo della Biblioteca Cantonale di Locarno, in Svizzera.

Un passaggio cruciale è quello in cui si legge “Ripensai alla tragedia che aveva solcato di sangue i ricordi della mia infanzia lontana e al povero servitore [Gaetano Scavello – NdR] assassinato sotto i miei occhi e in nemmeno venti giorni di lavoro febbrile avevo buttato giù il libretto dei ‘Pagliacci’ “.

La pubblicazione dell’opera non fu affatto facile: una volta ultimato il libretto, il compositore si recò dall’editore Ricordi, ma quest’ultimo rimase sconcertato in particolare dal prologo, oggi considerato un manifesto dell’opera verista. Ricordi obiettò che si creava troppa confusione tra comicità e tragicità, privando – a suo dire – il lavoro di ogni effetto. Leoncavallo però non si perse d’animo e si rivolse all’editore Sonzogno, che lungimirante accettò il lavoro. Fu un successo strepitoso che insidiò, quanto ad incassi, i successi di Giuseppe Verdi e di Giacomo Puccini.

Un cast stellare e Arturo Toscanini a dirigere l’orchestra “battezzarono” un’opera destinata a diventare immortale. Celebre è stata la registrazione discografica con Enrico Caruso in veste da protagonista: il disco è infatti ricordato come una pietra miliare dell’allora nascente industria discografica, essendo stato il primo ad aver superato il milione di copie vendute. Vediamo ora in sintesi questo capolavoro.

Abbiamo visto che, dopo l’esecuzione dell’Ouverture, l’opera inizia con uno stratagemma utilizzato in altri soggetti, ma sempre di sicuro effetto e cioè quello del “teatro nel teatro”. A sipario chiuso, s’affaccia Tonio, il baritono, nei panni di Taddeo che introduce lo spettacolo. E’ il prologo che invita gli spettatori a riflettere sulla vicenda e a giudicarne i personaggi, pensando a loro, non come a degli attori, ma come se fossero uomini veri.

Ora, dobbiamo immaginare un paesino del Sud d’Italia nel quale, per la festa di Ferragosto, è arrivata una compagnia di teatranti. La gente li acclama festosa e, come avviene ancora oggi quando arriva il circo, Canio, il capocomico, annuncia che lo spettacolo inizierà alle 23 ore e sarà molto divertente. Le 23 ore corrispondono alle 7 di sera, perché nelle campagne, i contadini misuravano il tempo con il sole e durante il mese d’agosto il sole tramontava alle 20 che segnava la fine della giornata lavorativa e coincideva con le 24.

Canio accetta l’invito di un contadino ad andare all’osteria. Tonio, che segretamente ama Nedda, dice che li raggiungerà più tardi. Un contadino, per fare lo spiritoso, insinua che Tonio vuole restare solo con Nedda per farle la corte. E allora Canio, che è molto geloso, si fa scuro in volto e si rivolge a tutti con tono minaccioso.

Nedda, rimasta sola, pensa preoccupata a come reagirebbe Canio, se sapesse che lei è innamorata di Silvio. E’ terrorizzata da quello sguardo pieno di violenza! È certa che se Canio perdesse la testa a causa della sua gelosia, potrebbe compiere anche un atto di sangue.

Compare Tonio, che aspettava proprio l’occasione per trovarsi solo con lei e dichiararle il suo amore. Nedda gli fa una risata in faccia e Tonio s’infuria, tenta di baciarla, ma lei lo scaccia, minacciandolo con una frusta. Allora Tonio si allontana, giurando di vendicarsi.
Sopraggiunge Silvio, che supplica Nedda di fuggire con lui. Lei ha paura ma, alla fine, conquistata dall’amore, promette a Silvio di andare via con lui dopo lo spettacolo. I due non si sono accorti d’essere spiati da Tonio, che corre ad informare Canio. Dopo pochi minuti, i due arrivano, ma Silvio è riuscito a far perdere le tracce e Canio, sopraffatto dalla gelosia, pretende da Nedda il nome dell’amante. Scoppia una lite furente, interrotta da Peppe che cerca di calmarli: il pubblico sta arrivando e manca poco all’inizio dello spettacolo. Canio dà voce alla sua disperazione, intonando la romanza più celebre dell’opera: Vesti la giubba.

Teatralità dello spettacolo

A separare il primo dal secondo atto, Leoncavallo compose uno degli intermezzi più coinvolgenti di tutta la storia dell’opera, nel quale s’adombra la tragedia che si sta preparando.

Lo spettacolo inizia con Colombina e Arlecchino, che per lei intona una canzone romantica. Dopo una prima fase dello spettacolo, in cui tutto sembra procedere normalmente, entra Canio nelle vesti di Pagliaccio, che s’aggira furibondo perché ha scoperto che Colombina ha un amante. Il pubblico ride, ma la realtà si sovrappone alla commedia. Le insinuazioni si fanno sempre più incisive, in quel recitare su canovaccio, finché il pubblico inizia a sospettare che quel dramma della gelosia non sia più una finzione.

Nedda/Colombina non vuole rivelare il nome dell’amante e la tragedia s’avvia alla conclusione: Canio estrae un coltello che punta alla gola di Nedda. Silvio è tra il pubblico e salta sul palcoscenico per aiutare la sua amata, ma Canio prima affonda la lama nella gola di Nedda e poi nel ventre di Silvio. Tonio si rivolge al pubblico ed esclama “La commedia è finita!”

Massimo Carpegna

Massimo Carpegna
Massimo Carpegnahttp://www.massimocarpegna.com
Docente di Formazione Corale, Composizione Corale e di Musica e Cinema presso il Conservatorio Vecchi Tonelli di Modena e Carpi. Scrittore, collabora con numerose testate con editoriali di cultura, società e politica.