E’ una mattinata cupa, quella del primo aprile, per il mondo accademico e per gli appassionati di storia. Ancora di più per i cari di Jacques Le Goff, che danno il triste annuncio della sua morte, divulgato immediatamente dal quotidiano francese Le Monde. Celebre medievista, i cui testi girano in tutte le università europee e non, si spegne a novant’anni lasciandosi alle spalle esperienze come la seconda guerra mondiale, la ricerca innovativa e l’insegnamento. Un intellettuale impegnato – fu militante nel Parti socialiste unifié (PSU) – che non fece mancare osservazione sul mondo contemporaneo. Ad esempio, si dichiarò aperto all’immigrazione che nel Medioevo aveva procurato la fortuna di certi territori, come la Sicilia di Federico II.
Nato nel 1924 a Toulon, città usata come porto principale dalla marina francese, studia all’ecole normale superieure. Nonostante l’educazione religiosa impartitagli dai genitori, si distanzierà da questa nel privato, trattandola soltanto nei suoi studi, da cui è imprescindibile.Nel 1954 diventa professore nella facoltà di lettere all’università di Lille. Si dedica al lavoro di ricercatore nel 1958 presso il Centre nationale de la recherche scientifique. Un anno prima aveva pubblicato “Gli intellettuali del Medio Evo”, testo fondamentale per comprendere il metodo rivoluzionario che avrebbe consolidato negli anni. Poi nel 1972 ottiene il posto di direttore della sesta sezione dell’Ecole pratique des hautes etudes.Nella sua formazione deve molto alla corrente degli , inaugurata dai grandi storici Marc Bloch e Lucien Febvre. Questa mirava a includere nella ricerca storiografica tutte le altre scienze sociali, dall’antropologia alla geografia, ampliando considerevolmente il campo degli studi. Inutile dire che la maggior parte di quelle acquisizioni metodologiche portate, avanti anche da Le Goff, sono tutt’ora valide.
Il contributo di Jacques Le Goff fu quello di approfondire aspetti del medioevo che fino a quel momento erano stati per lo più trascurati. Analizzò quelle che secondo lui facevano parte dei fenomeni di maggiore durata nella storia: le mentalità. Dice infatti: “Il livello della storia delle mentalità è quello del quotidiano e dell’automatico, è ciò che sfugge ai soggetti individuali della storia, perché esprime il contenuto impersonale del loro pensiero, è ciò che hanno in comune Cesare e l’ultimo soldato delle sue legioni, san Luigi e il contadino del suo regno […]”Le sue aree di interesse non furono quindi circoscritte ai grandi eventi politici, ma riguardarono le relazioni sociali, la vita quotidiana. Capiamo quanto l’antropologia sia implicata con queste premesse. Una delle grande tematiche che riportò alla luce fu quella della concezione del tempo: la differenza fra tempo del mercante, tempo del contadino e tempo della chiesa, ciascuno diverso perché legato alle esigenze pratiche e non a una convenzione. A lui dobbiamo la frammentazione in tanti piccoli medioevi, di diversa durata. Dimostrò la completa inaffidabilità delle segmentazioni nella storia, che oggi rimangono solo come strumenti utili all’organizzazione del materiale.
Uno dei suoi obiettivi fu anche quello di divulgare le sue ricerche all’esterno del panorama accademico. Scrisse saggi accessibili a tutti, affascinanti e mai banali, nonostante la vasta diffusione che ottennero. Ricordiamo tra i titoli: “Mercanti e banchieri del Medio Evo”, “Il corpo nel Medio Evo”, “Il tempo sacro dell’uomo” e uno degli ultimi “Uomini e donne del Medioevo”.Collaborò in Italia con la casa editrice Einaudi nella redazione di alcune voci della collana “Storia d’Italia”. Fu amico di Umberto Eco; si interessò e fece da consulente alle riprese della trasposizione cinematografica del suo romanzo “Il nome della rosa”.
Per La Repubblica rilasciò l’ultima intervista concessa alla stampa italiana il 28 gennaio 2014, in occasione dei 1200 anni dalla morte di Carlo Magno. In quel caso cercò di ridimensionare il mito stereotipato che eleva Carlo a primo padre fondatore dell’Europa.
E’ possibile consultare l’articolo qui: Intervista La Repubblica