Perché nacque il fascismo? È una domanda che oggi, a 74 anni dalla morte di Benito Mussolini, pare anacronistica, di modesto interesse, superata dai tempi e da una società che sicuramente non è più quella sopravvissuta alle trincee della Grande Guerra. Tuttavia, il ricordo del “Ventennio” è stato mantenuto vivo e contemporaneo per esorcizzare un pericolo che per alcuni non è affatto svanito tra le nebbie della storia. Tale pericolo – quasi un emblema posto alla base ideologica della “Sinistra” e giustificazione di un’esistenza politica, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino – molte volte è stato sventolato senza alcuna reale giustificazione e come arma politica ed elettorale. Il 20 settembre del 1922, Benito Mussolini tenne uno storico discorso a Udine, che configurò la struttura ideologica del fascismo e i suoi obiettivi iniziali. Riportiamo le lancette del tempo alla fine della Prima Guerra Mondiale e osserviamo il passato con gli occhi del presente, così come dobbiamo osservare il presente con gli occhi del passato.
Nell’ immediato primo dopoguerra, la situazione italiana era molto difficile, sul piano economico, e assolutamente caotica. I reduci, tornati a casa dopo quattro anni di stenti, malattie e combattimenti feroci, non riuscivano a reinserirsi per la grave crisi economica in cui versava il Paese a causa dei debiti contratti con le spese belliche. La nostra era ancora una civiltà fondamentalmente contadina e proprio i contadini avevano rappresentato l’ossatura del nostro esercito. A guerra finita, il Generale Diaz aveva promesso una equa redistribuzione delle terre che non avvenne. E così, gli ex combattenti, che non possedevano più un campo da arare, in molte regioni invasero i latifondi incolti e se ne appropriarono illegalmente, con la forza. Se nelle campagne la situazione si presentava come una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, nelle città non andava meglio. Il costo della vita aumentava a dismisura, le provviste erano scarse e solo le famiglie più agiate potevano acquistare carne, uova, latte…; i salari non erano stati aumentati e, in qualche caso, erano inferiori a quanto pagato prima dell’entrata in guerra. Alcuni, ridotti alla fame, si diedero al saccheggio dei negozi e una parte degli operai, spinti dai sindacati d’ispirazione comunista, tentarono d’accendere la fiamma della rivoluzione bolscevica. Tutto ciò condusse a quello che fu definito “il biennio rosso”, dal 1919 al 1920, caratterizzato dall’occupazione delle fabbriche da parte degli operai che ubbidivano all’ordine “fare come in Russia”.
L’uomo del destino
In questo clima confuso, mortificante, di grande disagio economico e, per certi aspetti, violento, una parte degli italiani s’augurava che qualcuno mettesse fine d’imperio alle difficoltà e al pericolo che la rivoluzione russa potesse riproporsi nel Bel Paese. In questo scenario apparve la figura di Benito Mussolini, dirigente socialista e, dal 1912, direttore del quotidiano “L’Avanti”. Mussolini, al principio, era stato contrario all’entrata in guerra dell’Italia, come fu il Partito Socialista, ma successivamente divenne interventista e i suoi articoli infiammavano il popolo. Il 20 ottobre del 1914 si dimise dalla direzione de “L’Avanti” e in novembre fondò il suo quotidiano, “Il popolo d’Italia”. Conclusasi la guerra, nel 1919 creò i fasci di combattimento e la sua propaganda non a caso faceva leva su quella che si definiva “la vittoria mutilata”. Grande era stato il tributo di sangue dei soldati, ma l’Italia non aveva ottenuto il giusto riconoscimento ed ora, a causa dell’egoismo delle grandi potenze europee, viveva nella miseria. La retorica mussoliniana scuoteva gli animi, sapeva toccare quelle corde dell’orgoglio, dell’ingiustizia subita, del tradimento e del desiderio di vendetta, come ne è un esempio l’annuncio della guerra in Etiopia:
Discorso sulla Guerra in Etiopia del 2 ottobre 1935
“Quando nel 1915 l’Italia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue sorti con quelle degli Alleati, quante esaltazioni del nostro coraggio e quante promesse! Ma, dopo la vittoria comune, alla quale l’Italia aveva dato il contributo supremo di seicentosettantamila morti, quattrocentomila mutilati, e un milione di feriti, attorno al tavolo della esosa pace non toccarono all’Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale altrui.
Abbiamo pazientato tredici anni, durante i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che soffocano la nostra vitalità. Con l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!
Alla Lega delle nazioni, invece di riconoscere i nostri diritti, si parla di sanzioni.
Sino a prova contraria, mi rifiuto di credere che l’autentico e generoso popolo di Francia possa aderire a sanzioni contro l’Italia. I seimila morti di Bligny, caduti in un eroico assalto che strappò un riconoscimento di ammirazione allo stesso comandante nemico, trasalirebbero sotto la terra che li ricopre.”
Il programma politico si proponeva di risolvere la difficile situazione economica, anche con interventi a carattere sociale e verso le classi più deboli. Di seguito il manifesto dei fasci di combattimento, detto il “Programma di San Sepolcro”.
Il Manifesto dei Fasci di Combattimento
Italiani! Ecco il programma di un movimento genuinamente italiano. Rivoluzionario perché antidogmatico; fortemente innovatore anti pregiudizievole.
Per il problema politico:
Noi vogliamo:
a) Suffragio universale a scrutinio di lista regionale, con rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità per le donne.
b) II minimo di età per gli elettori abbassato ai I8 anni; quello per i deputati abbassato ai 25 anni.
c) L’abolizione del Senato.
d) La convocazione di una Assemblea Nazionale per la durata di tre anni, il cui primo compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato.
e) La formazione di Consigli Nazionali tecnici del lavoro, dell’industria, dei trasporti, dell’igiene sociale, delle comunicazioni, ecc. eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di Ministro.
Per il problema sociale:
Noi vogliamo:
a) La sollecita promulgazione di una legge dello Stato che sancisca per tutti i lavori la giornata legale di otto ore di lavoro.
b) I minimi di paga.
c) La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria.
d) L’affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie o servizi pubblici.
e) La rapida e completa sistemazione dei ferrovieri e di tutte le industrie dei trasporti.
f) Una necessaria modificazione del progetto di legge di assicurazione sulla invalidità e sulla vecchiaia abbassando il limite di età, proposto attualmente a 65 anni, a 55 anni.
Per il problema militare:
Noi vogliamo:
a) L’istituzione di una milizia nazionale con brevi servizi di istruzione e compito esclusivamente difensivo.
b) La nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di esplosivi.
c) Una politica estera nazionale intesa a valorizzare, nelle competizioni pacifiche della civiltà, la Nazione italiana nel mondo.
Per il problema finanziario:
Noi vogliamo:
a) Una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze.
b) II sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l’abolizione di tutte le mense Vescovili che costituiscono una enorme passività per la Nazione e un privilegio di pochi.
c) La revisione di tutti i contratti di forniture di guerra ed il sequestro dell’ 85% dei profitti di guerra.
«II popolo d’Italia», 6 giugno 1919
Gli italiani sostengono l’ideologia fascista
Il consenso si moltiplicò in brevissimo tempo e le camice nere si attivarono per intervenire anche con la forza a risolvere certe situazioni considerate ingiuste. Già nel 1919, ampie zone dell’Italia del nord erano di fatto sotto il controllo delle camice nere, aiutate dalle forze dell’ordine e nel 1921 Benito Mussolini si propose alle elezioni. Fu eletto deputato e modificò la sua linea politica che, al principio, era fedele agli ideali repubblicani. Comprese che per raggiungere il potere occorreva avere l’appoggio della Corona e della Chiesa: s’avvicinò quindi alla monarchia con il discorso di Udine, tenuto il 20 settembre del 1922. Ecco alcuni passi.
Il discorso di Udine del 20 settembre 1922
“… Bisognerebbe che i nostri ministri degli Esteri sapessero giocare anche questa carta e la buttassero sul tappeto verde e dicessero: «Badate che l’Italia non fa più una politica di rinunce o di viltà, costi quello che costi!».
… Il nostro programma è semplice: vogliamo governare l’Italia. Ci si dice: «Programmi?». Ma di programmi ce ne sono anche troppi. Non sono i programmi di salvazione che mancano all’Italia. Sono gli uomini e la volontà! . Non c’è italiano che non abbia o non creda di possedere il metodo sicuro per risolvere alcuni dei più assillanti problemi della vita nazionale. Ma io credo che voi tutti siate convinti che la nostra classe politica sia deficiente. La crisi dello Stato liberale è in questa deficienza documentata. Abbiamo fatto una guerra splendida dal punto di vista dell’eroismo individuale e collettivo. Dopo essere stati soldati, gli italiani nel ’18 erano diventati guerrieri.
… Noi, dunque, lasceremo in disparte, fuori del nostro gioco, che avrà altri bersagli visibilissimi e formidabili, l’Istituto monarchico, anche perché pensiamo che gran parte dell’Italia vedrebbe con sospetto una trasformazione del regime che andasse fino a quel punto. Avremmo forse del separatismo regionale poiché succede sempre così. Oggi molti sono indifferenti di fronte alla monarchia; domani sarebbero, invece, simpatizzanti, favorevoli e si troverebbero dei motivi sentimentali rispettabilissimi per attaccare il fascismo che avesse colpito questo bersaglio.
… La monarchia rappresenterebbe, dunque, la continuità storica della nazione. Un compito bellissimo, un compito di una importanza storica incalcolabile.
… Ormai le cose sono molto chiare. Demolire tutta la superstruttura socialistoide-democratica.
Avremo uno Stato che farà questo semplice discorso: «Lo Stato non rappresenta un partito, lo Stato rappresenta la collettività nazionale, comprende tutti, supera tutti, protegge tutti e si mette contro chiunque attenti alla sua imprescrittibile sovranità”.
Da Fiume alla Marcia su Roma
L’occupazione di Fiume nel 1921, città a maggioranza italiana che era stata data alla Yugoslavia con un accordo siglato dal governo Giolitti, diede una formidabile accelerazione al fenomeno: grazie a volontari guidati da Gabriele D’Annunzio, che già durante il conflitto mondiale aveva dimostrato il proprio sprezzo del pericolo con diverse azioni e il famoso volo su Vienna, l’Italia si appropriava di una terra che considerava sua. Il grande consenso acquisito da D’Annunzio, consigliò a Benito Mussolini di prendere l’iniziativa, nel timore che il “Vate” lo scavalcasse quale “capo naturale” del fascismo. Così, il 24 ottobre del 1922 a Perugia fu formato un quadrumvirato composto da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Michele Bianchi ed Emilio De Bono. Il 28 ottobre 1922 bande organizzate di fascisti e simpatizzanti confluirono su Roma e il Re, per evitare quella che considerava una guerra civile imminente, non allertò l’esercito, non firmò lo stato d’assedio, ma anzi affidò a Mussolini il compito di formare il nuovo governo. Per vie democratiche aveva inizio ufficialmente l’era fascista.
Massimo Carpegna