Walter Audisio e la morte di Mussolini

Dalla divisione del C.L.N. sul destino del Duce, nasce una storia di contrasto tra gli italiani che perdura ancora oggi

Quando al Comitato di Liberazione Nazionale giunse la notizia che Mussolini e alcuni gerarchi erano stati catturati, mentre tentavano la fuga a bordo di un camion delle truppe tedesche, si aprì su­bito un duro confronto tra i cinque partiti che guidavano la Resistenza.

Tre contro due

Liberali e Democristiani volevano fosse rispettato l’armistizio firmato l’8 settembre con gli Al­leati, che pretendevano la consegna del Duce e dei gerarchi per sottoporli ad un processo con tutte le garanzie. Non sarebbero state sentenze sommarie e fucilazioni conseguenti a chiudere il fascismo e il nazismo, ma la Giustizia. Per la nuova Europa, non doveva esserci nulla in comune con le azio­ni compiute dai nazisti e dai repubblichini. Per questa ragione, dal 20 novembre 1945 al 1 ottobre 1946 si allestì il “Processo di Norimberga”.
La posizione della sinistra, costituita dal Partito Comunista, dai Socialisti e dal Partito d’Azione, era nettamente contraria: Mussolini e i suoi dovevano essere giustiziati in Italia, per mano dei partigiani ita­liani.

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Una seconda chance per la Rivoluzione

La volontà, neppure nascosta dal Partito Comunista, era quella d’assumere il merito d’aver ven­dicato il Popolo italiano per ventitré anni di dittatura e cinque anni di guerra, spalancando le porte a quel progetto di Rivoluzione tentata dopo la Prima Guerra Mondiale. Uno Stato governato dal so­cialismo reale, sul modello dell’Unione Sovietica, poteva realizzarsi senza altro spargimento di sangue.
Le conseguenze furono una sentenza senza processo che giustiziò il Duce e Claretta Petacci, la cui uni­ca colpa era stata quella d’amare Mussolini, l’esposizione dei corpi al vilipendio della folla e l’impicca­gione per i piedi al traliccio di un distributore di benzina in costruzione a Piazzale Loreto.

La “macelleria messicana”

Quella che fu definita una “macelleria messicana” fu giustificata a posteriori da alcuni politici e storici d’area socialista con la volontà d’abbattere il mito di Mussolini; resta il fatto che da quel lon­tano 29 aprile, e da una versione dei fatti che ha suscitato non pochi dubbi, l’Italia è rimasta divisa, come lo fu il C.L.N. in quei giorni d’aprile del 1945.

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Il racconto di Walter Audisio, il “Colonnello Valerio”

Il personaggio principale dell’impresa fu Walter Audisio, nome di battaglia “Colonnello Valerio” che, tramite le pagine de “l’Unità“, fornì un resoconto dettagliato il 25-26-27-28-29 marzo 1947. Prima di questi resoconti, lo stesso Audisio raccontò all’organo del Partito Comunista Italiano e fondato da Antonio Gramsci “l’Unità” le ultime ore di Mussolini. Atteniamoci alla prima, quando il ricordo dell’accaduto era, o avrebbe dovuto essere, chiaro. Ecco il testo completo:

Il testo completo

Il Comando della 52° Brigata “Luigi Clerici”, conscio dell’importanza dei prigionieri catturati, aveva diviso questi ultimi in tre gruppi. Mussolini era stato sistemato con la Petacci in località Giulino di Mezzegra (Tremezzina), provincia di Como, in una casetta di contadini a mezza costa, in una camera senza finestra, guardati da due partigiani. Entrai con il mitra spia- nato. Mussolini era in piedi vicino al letto: indossava un soprabito nocciola, il berretto della G.N.R senza fregio, gli stivaloni rotti di dietro. Lo sguardo era sperduto, gli occhi fuori dall’orbita, il labbro inferiore tremolante: un uomo terrificato. Le prime parole che pronunciò furono: “Che cosa c’è?”. Avevo progettato di eseguire la sentenza in un luogo poco distante dalla casa. Per portarlo fin là dovetti ricorrere a uno stratagemma. Risposi: “Sono venuto a liberarti”. “Davvero?”. “Presto, presto, bisogna fare presto! C’è poco tempo da perdere…”. “Dove si va?”. “Sei armato?” con il tono di offrirgli un’arma. Rispose: “No, io non ho armi” con il tono di avere compreso la domanda. Mussolini fece l’atto di uscire. Io lo fermai: “Prima lei”. La Petacci non riusciva a rendersi conto di che cosa avvenisse. Si affrettò affannosamente a cercare i suoi oggetti personali. “Fa presto, sbrigati…”. A questo punto Mussolini fece l’atto di uscire perché non stava più nella pelle. E in realtà uscì prima della Petacci. Uscito all’aperto, Mussolini si trasfigurò e, voltandosi verso di me, mi disse: “Ti offrirò un impero”. Eravamo ancora sulla soglia della camera. Invece che rispondere a lui, dissi alla Petacci: “Avanti, avanti” e la tirai fuori per un braccio. La Petacci si affiancò a Mussolini, seguiti da me e fecero la mulattiera che scende dalla mezza costa sino al punto in cui era ferma la macchina. Durante il tragitto, Mussolini si voltò una volta sola con lo sguardo ricono- scente. A questo punto gli sussurrai: “Ho liberato anche tuo figlio Vittorio (volevo comprendere dalla risposta che avrebbe dato, dove poteva trovarsi Vittorio). “Grazie di cuore. E Zerbino e Mezzasoma dove sono?” domandò. Risposi: “Stiamo liberando anche loro”. “Ah!” e non si voltò più. Giunti alla macchina, Mussolini sembrava convinto di essere un uomo libero. Fece il gesto di dare la precedenza alla Petacci, ma io gli dissi: “Vai tu là. Sei più coperto. Ma con quel berretto da fascista è un po’ una grana…”. Mussolini se lo tolse e, battendosi la mano sulla pelata disse: “E questa qui?”. “Calcati molto la visiera sugli occhi, allora”. Si partì. Giunti al posto precedentemente da me scelto (curva della strada a destra e rientro del muricciolo a sinistra, una specie di piazzetta) feci fermare la macchina, facendo segno a Mussolini con la mano di non parlare. E sottovoce, accostandomi allo sportello, gli sussurrai: “Ho sentito dei rumori…Vado a vedere”. Scesi dal parafango e mi portai fino alla curva. Poi tornai e dissi ancora pianamente: “Svelti, mettetevi in quell’angolo”. Mussolini, pur obbedendo celermente, non apparve più sicuro ma tuttavia ubbidiente; si mise con la schiena al muro al posto indicato con la Petacci al fianco destro. Silenzio. Improvviso pronuncio la sentenza di condanna contro il criminale di guerra: “Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano”. Mussolini appare annientato. La Petacci gli butta le braccia sulle spalle e dice: “Non deve morire”. “Mettiti al tuo posto, se non vuoi morire anche tu…”. La donna torna con un salto al suo posto. Da una distanza di tre passi, feci partire cinque colpi contro Mussolini che si accasciò sulle ginocchia con la testa leggermente reclinata sul petto. Poi fu la volta della Petacci. Giustizia era fatta.

Il dialogo con Mussolini

L’osservazione immediata è il modo in cui Audisio si rivolge a Mussolini. Ecco il dialogo, estrapolato dalla narrazione:
Audisio, Sono venuto a liberarti.
Mussolini, Davvero?
Audisio, Presto, presto, bisogna fare presto! C’è poco tempo da perdere…
Mussolini, Dove si va?
Audisio, Sei armato?
Mussolini, No, io non ho armi
Audisio, Prima lei. (rivolgendosi alla Petacci)
Mussolini, Fa presto, sbrigati… (rivolgendosi alla Petacci) Mussolini, Ti offrirò un impero! (rivol­gendosi ad Audisio) Audisio, Avanti, avanti (rivolgendosi alla Petacci)
Audisio, Ho liberato anche tuo figlio Vittorio
Mussolini, Grazie di cuore. E Zerbino e Mezzasoma dove sono?
Audisio, Stiamo liberando anche loro
Mussolini, Ah!
Audisio, Vai tu là. Sei più coperto. Ma con quel berretto da fascista è un
po’ una grana… (rivolgendosi a Mussolini)
Mussolini, E questa qui? (indicando la testa)
Audisio, Calcati molto la visiera sugli occhi, allora
Audisio, Ho sentito dei rumori…Vado a vedere
Audisio, Svelti, mettetevi in quell’angolo
Audisio, Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della
Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano Petacci, Non deve morire!
Audisio, Mettiti al tuo posto, se non vuoi morire anche tu…

Un approccio semantico

Audisio si rivolge sempre a Mussolini con una amichevole seconda persona (Vai tu là… Calcati la visiera…) ed è difficile credere che un anonimo ragioniere non abbia avuto alcuna soggezione nei confronti di chi, fino a qualche giorno prima, era un capo di Stato, il Duce degli italiani. Poco credi­bile anche l’ipotesi che questo utilizzo della seconda persona sia stata una scelta lessicale per pre­sentarsi quale amico, milite della R.S.I del quale avere fiducia. In quest’ultimo caso, Audisio avreb­be dovuto salutare Mussolini con il braccio alzato e gli avrebbe dato del “voi”. È più probabile che questa sia stata una decisione costruita a posteriori, per suggerire la pochezza di un uomo temutissi­mo che si rivela smarrito, pauroso, ubbidiente, con il labbro tremante, senza nulla di quel carisma autoritario che lo distin­gueva, e nello stesso tempo si valorizza la figura di Audisio, astuto e determinato.

Quale “Impero”?

Un indizio di questa strategia narrativa è il successivo “Ti offrirò un impero!”. Mussolini non è an­cora uscito dall’area dell’abitazione, e quindi la sua salvezza è ancora tutta da conquistare anche se Audisio fosse stato un comandante delle Brigate Nere, e il Duce sente immediato il bisogno d’offri­re un ipotetico impero al suo salvatore. Ma a quale impero si riferisce, considerato che le colonie africane sono ormai da tempo nelle mani degli inglesi? Naturalmente, Audisio neppure risponde a una offerta così strabiliante.

Prime incongruenze

Analizziamo il principio di questa storia: sappiamo che Mussolini, insieme alla Petacci, hanno dormito in una camera senza finestre al primo piano, con due partigiani fuori dalla porta. Hanno ri­posato fino a tardi e consumato un pasto frugale a base di polenta e salame, quando uno scono­sciuto, con il mitra spianato, entra nella stanza e dice: “Sono venuto a liberarti“. E i due partigiani di guardia dove sono spariti? Uccisi? Il Duce ha udito dei colpi d’arma da fuoco e può supporre un’azione condotta dai suoi? Non si ha menzione di questo particolare, ma entra uno sconosciuto, che non alza il braccio nel saluto fascista davanti al suo Duce, e gli dice “Sono venuto a liberarti“. E Mussolini, del quale si può dire ogni nefandezza ma non che fosse uno stupido, risponde con un sorpreso “Davvero?” e s’avvia verso l’uscita. È pure poco educato, visto che si disinteressa della donna che, per amore, ha deciso di stargli accanto fino alla fine. Vuole precipitarsi fuori dalla stanza ed è Audisio, che ricorda ancora le buone maniere, a dirgli: “Prima lei“. Anche questo è un partico­lare che induce ad un giudizio di meschinità.

Dalla divisa al soprabito nocciola

Altro fatto: Mussolini ha appena terminato di pranzare, ma si trova accanto al letto, indossa un soprabito nocciola, il berretto della Guardia Nazionale Repubblichina senza fregio e gli stivaloni rotti di dietro. Pronto per uscire? Quando fu catturato e trascinato nella casa dei De Maria, indossa­va la giacca da soldato della Wehrmacht.

Un’analisi dell’esposizione generale

Osserviamo ora l’esposizione generale: nella prima parte del testo abbiamo molti particolari an­che di modesta o nessuna importanza, dopodiché il tutto si esaurisce con un “Svelti, mettetevi in quell’angolo” e una raffica di mitra. Per l’amante di Mussolini è poi sufficiente un “Poi fu la volta della Petacci“. A chiudere il tutto un “Giustizia era fatta“.
Inutile negare che rappresentare il comunista Walter Audisio patriota ed eroe che aveva vendica­to il Popolo italiano era un modo per assegnare al P.C.I. un ruolo decisivo per quella che sarebbe stata la storia futura dell’Italia.

Al vertice nel partito e “Senatore”

Il Colonnello “Valerio” raggiunge i vertici del Partito Comunista e diventa Senatore nella IV le­gislatura, ma la sua versione dei fatti è messa in discussione fin dal principio, anche dai “compagni”, poiché il racconto tra­bocca di contraddizioni e imprecisioni, tanto d’apparire inventato e che il suo resoconto sia servito a coprire il vero esecutore o un eccidio assai meno organizzato militarmente ed eroico.

Altre contraddizioni

Descrive l’abitazione dei De Maria come piccola, nonostante proponesse tre piani; riporta che la camera da letto, dove dormirono Mussolini e la Petacci, non aveva finestre. Ma una testimone oculare, che vedremo in seguito, ricorda un fatto diverso. In resoconti successivi, Audisio dice che l’amante di Mussolini “cadde senza vita sull’erba“, sebbene il terreno davanti al cancello di Villa Belmonte, dove avvenne la fucilazione secondo la tesi ufficiale, fosse ricoperto di ghiaia. Fu quindi proprio il resoconto di Audisio a creare il contesto di mistero sulla morte del Duce e di Claretta Petacci.

Un oceano di ricostruzione i differenti

Negli anni successivi, nuovi testimoni e le ricerche degli studiosi hanno suggerito ricostruzioni e supposizioni differenti. Ad oggi abbiamo circa trenta versioni diverse di quel 28 aprile 1945 e dieci possibili esecutori della fucilazione, compreso Pietro Longo e un agente segreto inglese inviato da Winston Chur­chill per via di alcuni carteggi compromettenti.

La versione di Dorina Mazzola

Tra le versioni più accreditate, poiché non riconducibili a personali convenienze o di partito, c’è quella di una vicina dei De Maria, Dorina Mazzola, che all’epoca aveva 19 anni: «In mattinata ho sentito sette spari provenienti dal cortile dei De Maria. In quel momento ho visto una donna alla finestra che gridava aiuto. Ma qualcuno l’ha tirata dentro con violenza. Poi ho visto un uomo calvo con una canottiera bianca: camminava sostenuto da due uomini e seguito da una donna in lacrime. La testa dell’uomo ciondola- va in modo strano e ho capito che era morto. Poi ho sentito degli spari. I Partigiani urlavano: “Chi è quell’idiota che ha sparato?“. Ho guardato la donna e non si muoveva più. Le campane avevano appena rintoccato mezzogiorno.».

Una conferma dall’autopsia

Una doppia esecuzione – una reale e una simulata – pare, che trova sostegno nell’autopsia fatta sul corpo di Mussolini. Gli esami sul cadavere, eseguiti il 30 aprile del 1945, identificano le cause del decesso con sette fori nel torace, che hanno portato il Duce ad una morte istantanea. Forse, a Villa Belmonte si è sparato contro il muretto di cinta per creare una prova di quanto sarebbe stato ri­ferito in seguito, nonostante la descrizione fatta dal partigiano “Bill” Urbano Lazzaro di come si presentavano i corpi di Mussolini e della Pe­tacci appena giustiziati.

Il “Capitano Neri” e la sua compagna

Altre morti avvolte nel mistero si aggiungeranno, come quella del Capitano “Neri” – Luigi Canali – incaricato di redigere l’inventario del “tesoro di Dongo”, e della sua compagna “Gianna” – Giuseppina Tuissi -i cui corpi non saran­no mai ritrovati, probabilmente dispersi nel lago. Sia l’uno che l’altro si erano interessati a dove era sparito l’oro e quella quantità straordinaria di denaro con diverse valute. La partigiana “Gianna” è minacciata dal segretario del PCI di Como, Dante Gorreri, e da Pietro Vergani, Comandante delle formazioni garibaldine della Lombardia, dal condurre ricerche sull’Oro di Dongo e sul Capitano “Neri” e sparisce nelle acque del lago in prossimità di Cernobbio.

La conclusione

In conclusione, finita la guerra e liberate le città, gli italiani si sono proclamati quasi tutti antifa­scisti e ciò ha portato ad una lettura lacunosa del passato e non sempre corrispondente ad una verità incontrovertibile, come se il Ventennio fosse responsabilità soltanto di un uomo e di pochi suoi fi­dati: Mussolini e i gerarchi; come se il regime fascista fosse stato imposto agli italiani con violenza e non scelto nel 1922 e seguito con entusiasmo negli anni successivi.

Un’amnesia collettiva

Questo è stato il modo per non fare i conti con il passato, attraverso un’amnesia collettiva su quello che fu il regime, soprattutto nel periodo pre bellico; la suddivisione del Popolo italiano, che permane tutt’oggi, nasce anche da quei giorni di aprile del 1945, dal contrasto all’interno del C.L.N. sul destino di Mussolini, e di un fascino che tale periodo ancora esercita su una parte degli italiani, proprio perché la narrazione che è stata fatta, sul fascismo, sulla Resistenza e sulla morte del Duce, non convince in alcuni punti. L’Italia ha bisogno di una verità incontrovertibile sul proprio passato, di riconciliazione e unità, se vuole sperare in un futuro più prospero e di pace. L’amnesia collettiva deve finire, come il racconto di alcune gesta eroiche che tali non furono.

Massimo Carpegna

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Massimo Carpegna
Massimo Carpegnahttp://www.massimocarpegna.com
Docente di Formazione Corale, Composizione Corale e di Musica e Cinema presso il Conservatorio Vecchi Tonelli di Modena e Carpi. Scrittore, collabora con numerose testate con editoriali di cultura, società e politica.