Don Lenzini martire, ucciso dai partigiani comunisti

Ucciso con un colpo alla nuca la notte tra il 20 e il 21 luglio 1945 a guerra finita per le sue prediche contro l'ateismo imposto in Russia

Ai ferventi cristiani farà piacere ricordare la figura di don Luigi Lenzini, che il 28 ottobre 2020 ha visto riconosciuto dalla Congregazione delle Cause dei Santi il suo martirio. Il destino del sacerdote fu condiviso in egual misura dal seminarista e beato Rolando Rivi e da un’altra ventina di religiosi.
Quando e dove avvennero queste uccisioni “in odio alla fede”, come è scritto nel documento redatto dalla Congregazione? Dopo l’8 settembre 1943, nella rossa Emilia-Romagna: patria di estremismi politici.

Orbene, il massacro si perpetuò la notte tra il 20 e il 21 luglio del 1945 e nessuno, neanche il più spericolato dei marxisti leninisti, potrebbe tentare la giustificazione con parole come queste: “tempi violenti e crudeli, ma per verità storica occorre dire che i fascisti fecero lo stesso”. Quindi, una sorta di “legge del taglione”: peccato che don Luigi Lenzini e gli altri religiosi non fecero del male a nessuno.

Non la pensavano così i partigiani comunisti che lo freddarono. È bene ricordare che dei circa cento omicidi di religiosi, commessi tra il 1944 e il 1946, ben ventidue furono compiuti in Emilia-Romagna, nel “Triangolo della morte”, dove l’egemonia comunista sulla Resistenza condusse i partigiani militanti ad abbattere anche i simboli di quell’ordine borghese che dovevano essere sostituiti da quelli del socialismo reale.

Don Luigi Lenzini e il seminarista Rolando Rivi furono ammazzati sull’Appennino modenese. Pur se legati da identico destino, molte sono le differenze tra i due: Rivi era un seminarista di appena quattordici anni, mentre don Lenzini ricopriva l’incarico d’essere parroco e aveva sessantaquattro anni. Il primo fu fucilato per spionaggio qualche giorno prima della fine della guerra, in seguito alla condanna dei fantomatici ed inesistenti “tribunali del popolo”. Un James Bond adolescente e con il rosario in mano, per i partigiani comunisti che, con la grazia voluta da Togliatti, così confessarono. Il parroco, invece, trovò la morte tre mesi dopo la fine del conflitto con l’accusa che, durante le prediche, condannava l’ateismo comunista e voluto in Unione Sovietica. Insomma, si presentava come un ostacolo per coloro che sognavano un imminente futuro come in Russia.

Come andarono i fatti? Nella notte tra il 20 e il 21 luglio, un gruppo di sconosciuti picchia alla porta della canonica di Crocette di Pavullo, dicendo che un uomo del paese era gravemente malato e aveva bisogno del suo conforto spirituale. Parlano in dialetto stretto e non destano sospetti. Don Lenzini dice alla perpetua di riferire agli sconosciuti che è appena tornato da quella casa e ha promesso all’ammalato di tornare nel giorno successivo. Visto che l’espediente è fallito, i partigiani aprono il fuoco verso la finestra con la luce accesa e penetrano all’interno della canonica. Don Lenzini si precipita dentro il campanile e suona le campane per chiedere aiuto, mentre continuano gli spari. Nessuno esce per prestare soccorso al sacerdote, che è raggiunto e trascinato via, in una vigna vicina, dove sarà ammazzato con un colpo alla nuca. I partigiani smuovono con le mani e gli scarponi la terra per creare una piccola fossa e ricoprono il cadavere.

Già nel mattino successivo, i Carabinieri iniziano le indagini, ma nessuno ha visto o sentito qualcosa e, naturalmente, conosce la ragione di quel delitto. L’omertà, evidentemente, non è prerogativa siciliana o calabrese! Solo nel 1947 se ne viene a capo, dopo l’amnistia del 22 giugno 1946: ignoti dirigenti del Pci di Pavullo avevano preso di mira il parroco per le sue prediche molto ascoltate dai fedeli e contrarie all’ideologia marxista. “Si arriverà un giorno che le donne non potranno più battezzare i loro bambini!” aveva osato dire.

Alcuni violenti decisero di tappargli la bocca e tra questi si sospettò di un ex seminarista, Bruno Covili, agente della polizia partigiana di Pavullo, che in tempo di guerra era stato nascosto dai rastrellamenti tedeschi e salvato proprio da don Lenzini. Un altro fu Savino Cantergiani, garzone del sacerdote, che ben conosceva la disposizione della canonica. Quando finalmente si aprì il processo presso la Corte d’Assise di Modena nel 1949, tutti furono assolti per insufficienza di prove, anche se il Sostituto Procuratore commentò che la certezza era del 99 per cento.

Massimo Carpegna

Massimo Carpegna
Massimo Carpegnahttp://www.massimocarpegna.com
Docente di Formazione Corale, Composizione Corale e di Musica e Cinema presso il Conservatorio Vecchi Tonelli di Modena e Carpi. Scrittore, collabora con numerose testate con editoriali di cultura, società e politica.