Roma al tempo di Catullo. La terza parte
Il primo incontro tra Catullo e Lesbia
Catullo e Lesbia: un amore che ha percorso duemila anni, giungendo a noi con tutta la sua dirompente passionalità e lacerante angoscia. Il primo incontro tra il poeta e Clodia Pulcra, chiamata da lui Lesbia, in onore della poetessa Saffo dell’isola greca di Lesbo, avvenne fortuitamente e accese subito la fiamma del desiderio. Un certo Mario, amico di Catullo, offrì la sua casa, affinché i due amanti potessero godere nell’intimità. Così scrive Catullo nel Carme 68: Egli offrì la sua dimora a me e alla mia donna, presso cui vivessimo i reciproci amori… E poi prosegue per esprimere l’emozione di quell’abbandono ai sensi: La mia luce si gettò tra le mie braccia e Cupido, correndole intorno ora qua e ora là, risplendeva candido nella sua veste color zafferano. Anche se non s’accontenta del solo Catullo, lo sopporterò, purché i tradimenti della vereconda padrona siano rari, per non lamentarmi come fanno gli sciocchi. In queste poche parole si evidenzia la differenza di personalità tra i due soggetti, che sanno trovare un punto d’incontro nella passione carnale. Catullo, che si riferisce a Lesbia chiamandola la mia luce è il poeta, l’animo sensibile e sognatore, che è travolto dalla sensualità di Lesbia, dirompente e irrefrenabile, considerato che Catullo mette in conto che non basterà certo lui ad appagarla. È suggestivo immaginare che Lesbia abbia messo in guardia il giovane Catullo che, tuttavia, stordito dal desiderio, non abbia voluto dare importanza a quel monito. Per indicare i tradimenti, Catullo usa la parola furta, poiché l’infedeltà è per il poeta un furto che si compie a danno dell’amore e della persona che si dice di amare.
Un amore traboccante di gioia
Il rapporto tra Catullo e Lesbia è caratterizzato da momenti di estasi nei quali il poeta avverte la pienezza della vita e, in una di queste parentesi di somma felicità, dedica un canto alla sua donna, il Carme numero 5, che trabocca di gioia e amore: Vivamus, mea Lesbia, atque amemus… Viviamo, mia Lesbia, e amiamo e le chiacchiere dei vecchi troppo austeri consideriamole meno di un soldo. I giorni possono tramontare e ritornare ma noi, quando la breve luce cade, dobbiamo dormire una notte eterna. Dammi mille baci e poi cento e poi altri mille e di nuovo altri cento. E quando ne avremo messi insieme diverse migliaia, li confonderemo per non sapere quanti siano e perché nessun malvagio ci possa invidiare, sapendo che esiste un così gran numero di baci.
Un sacro amore, davanti agli dei
Catullo vuole confermare questo suo amore per Lesbia davanti agli dei. Nell’antica Roma, il matrimonio era inteso il più delle volte quale patto sociale, economico e anche politico, come quello stipulato tra Pompeo e Giulia; generalmente non aveva il significato di un’assunzione di responsabilità tra due persone che si amano e desiderano condividere tutti i giorni della loro esistenza. L’amore era una condizione che si viveva al di fuori del matrimonio e Catullo, con il Carme 109, chiede agli dei di essere testimoni di questo fatto, di questa promessa: Vita mia, mi prometti che questo amore tra di noi sarà gioioso e per sempre? Grandi dei, fate che possa promettere il vero con parole sincere dal cuore, affinché ci sia consentito di protrarre questo legame di eterna, sacra amicizia per tutta la vita. Per Catullo, quindi, alla base dell’amore c’è la stima, le affinità, l’amicizia e ciò rende la relazione assolutamente diversa da una momentanea passione sensuale.
Una passione insaziabile
Purtroppo, come il poeta già era consapevole al principio della sua storia con Lesbia, il desiderio carnale della sua donna non s’acqueta e gli giungono delle voci di possibili tradimenti. Non ne ha le prove, ma la gelosia inizia a corrodere le sue giornate e questi tormenti sono esibiti chiaramente nel Carme 70: Lesbia dice di non voler sposare nessuno, tranne me, neppure se la chiedesse Giove in persona, dice. Ma quello che dice una donna all’amante bramoso, bisogna scriverlo nel vento e sull’acqua che scorre via veloce. Con il passare del tempo, i dubbi di Catullo diventano certezze e i tradimenti di Lesbia si fanno sempre più frequenti e sfacciati. La sofferenza e la delusione del poeta sono descritti nel Carme 72: Un giorno, Lesbia, dicevi che amavi me solo e che non avresti voluto al mio posto neppure Giove. Ti ho amato, allora, non come la gente comune ama l’amante, ma come un padre adora i figli e i generi. Ora ti conosco e anche se brucio più forte, sei per me di molta meno importanza e di minore valore. Ti chiedi: com’è possibile? Perché un’ingiuria tale, costringe l’innamorato ad amare di più, ma a voler bene di meno. Catullo, quindi, non può fare a meno di Lesbia, della sua presenza, della sua passione amorosa. Il fatto che lei giaccia anche con altri uomini, forse lo induce ad un’assurda competizione con gli altri amanti. Ma l’amore, inteso quale bene profondo e spirituale, si fonda sulla fiducia, sulla stima e quindi Catullo si allontana.
Dall’amore al disprezzo, alla speranza
Dal dubbio nasce la gelosia e dalla certezza dei tradimenti si sviluppa il desiderio di vendetta e la violenza. Catullo usa la parola, per manifestare il suo disprezzo verso Lesbia, e lo fa rivolgendosi all’amico Celio nel Carme 58: O Celio, la nostra Lesbia (con questo plurale, Catullo suggerisce l’idea che anche l’amico sia stato sedotto), quella Lesbia che Catullo amava più di se stesso e di tutti i suoi, ora nei bordelli e nei quadrivi smunge i discendenti di Remo. Catullo usa il verbo smungere (in latino glubit) il cui significato è togliere da un corpo tutto il suo umore.
Ma come spesso accade, un sorriso, una lacrima, una parola, persino una critica possono riaccendere la speranza, poiché si nota ciò che si vuol vedere e nell’amore s’interpreta ciò che si vede, sempre secondo i propri desideri e aspirazioni. Alle orecchie di Catullo giungono delle voci su Lesbia, che parla male di lui, ma sempre di lui: è presente in ogni suo discorso. Per il poeta, ciò è la prova che non l’ha dimenticato, è ancora al centro dei suoi pensieri e del suo interesse. L’amore tra loro non è ancora finito. Così scrive Catullo nel Carme 92: Lesbia sparla di me, ma parla sempre di me. Possa io morire se ella non m’ama! Per quale indizio? Perché è lo stesso che ho io: la maledico di continuo, ma possa io morire se non l’amo.
Il tragico epilogo
Questa vicenda d‘amore, così sfaccettata e dilaniante, moderna, poiché l’Uomo e i sentimenti che prova non cambiano mai, giunge al suo epilogo con il Carme 11. Lesbia tenta una riconciliazione e affida agli amici comuni, Furio ed Aurelio, una sua lettera. E questa è la risposta di Catullo: Furio e Aurelio, di Catullo al fianco… sempre pronti ad affrontar qual sorte i numi vogliano, riferite alla mia donna queste poche parole non buone: viva e goda con i suoi amanti, tenendone abbracciati trecento insieme e non amandone nessuno veramente, ma sfiancandoli tutti nello stesso tempo. E non si volti a guardare il mio amore d’un tempo, che per sua colpa è caduto, come un fiore sul margine del prato, dopo che è stato reciso dall’aratro che passa oltre. Catullo utilizza il verbo tactus, toccato dall’aratro, poiché l’amore è cosa delicata e basta toccarlo per farlo morire.
Tornato da un viaggio in Oriente, intrapreso per dimenticare Lesbia e i suoi baci, Catullo farà ritorno alla sua Sirmione, dove morirà a soli trent’anni.
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Massimo Carpegna